GLI ALLEGRI
CHIRURGHI
di Ray Cooney
APPUNTI DI VIAGGIO
TEATRALGASTRONOMICI
Aneddoti,
curiosità, buoni piatti o semplicemente cose da ricordare delle nostre
trasferte
Solbiate Olona -
13 aprile 2019
Non siamo più abituati a
vedere il furgone così stipato e quando lo sguardo si posa sul telone
che si chiude restiamo stupiti della quantità di cose che, un po' alla
rinfusa (per dirla tutta), trovano posto nel mezzo. Più da svuota
cantine che riempi palchi.
Un furgone che blocca il nostro all'uscita non semina il panico, solo un
po' di ritardo sulla tabella di marcia.
Sotto un cielo che promette pioggia ma non la mantiene si avvia la
processione verso Solbiate Olona che di noi conosce solo la cena, quella
del cretino per intenderci.
Il palco é piccolo, l'attore mormora. Per cercare un'idea che faccia
trovare posto alla scenografia dribblando gli ostacoli delle scale
laterali che rubano spazio e stabilità. Mille congetture per poi tornare
alla soluzione di sempre, la migliore.
Definita la rotta la meta è veloce da raggiungere. Anche se Hubert si
diverte a seminare trappole spostando pannelli e invertendo bulloni come
fosse la sua prima volta. Il ritmo di Samba evocato dalla presenza di
Zezi rende tutto più allegro, giusto antipasto alla commedia.
Le luci sono fisse. Basta accendere, vedere che tutto funziona e il
puntamento é fatto. Stessa sorte per l'audio che ha in più solo i volumi
da regolare.
Resta il tempo per prenotare il 'Regine di cuori' che la rete valuta
five stars è un paio di giri macchiavellici a velocità alternata.
Aggiungi un posto a tavola, anzi due. Alla pizza si aggrega Omar e
promessa sposa, entrambi ancora vergini di chirurghi. E in un ambiente
pensato per tavolate e feste under 14, gustiamo una pizza che
apprezziamo per leggerezza, croccantezza e... velocità.
Processione gialla per rientrare a teatro con litanie non proprio
ortodosse rese immortali dalla regia di Monica che fanno divertire
cantanti e panettieri. Posso? Posso!
Affidato il sipario a Monica si corre verso i personaggi mentre la sala
rumoreggia più di quel che contiene.
Nonostante l'ingresso gratuito pagato con il sangue dalla locale sezione
di Avis, la sala non si riempirà più di un dignitoso cinquanta per
cento. Già un ottimo risultato stando a chi sa.
Il restante 50 per cento che ha preferito il divano alle pur comode
poltroncine del teatro si é perso una bella prova teatrale. La latitanza
che durava da ottobre ha tolto meccanicità e dato personalità
all'interpretazione di tutti. E nonostante qualche trascurabile
sbavatura che le due sole prove non sono riuscite a colmare, le risate,
gli applausi e i bravo a spettacolo in atto spiegano la qualità della
messa in scena.
Congedato il pubblico e festeggiato l'esordio sulle scene della
siparista, come un miraggio si materializza a fondo sala la manna dal
cielo. Braccia, tante braccia amiche che renderanno più dolce, e veloce,
l'attraversamento del nostro deserto, mentre dal cielo, quello vero,
scende l'acqua promessa, ora mantenuta.
La crostata della debuttante mangiata a secco dietro la pressione del
tecnico autista marito impone una birra per rivivere gli aneddoti della
serata e annaffiare di luppolo il riposo del guerriero. Tutti al
Lowengrube di Castellanza che oggi farà da Sayo.
Sirone -
17 novembre 2018
Dottor DAVID MORTIMERE
Piccolo palco. Piccolo furgone. Grande tecnico. Che con la sua presenza
risolve il mal di schiena del tecnico anziano, scandendo con precisione
millimetrica dal paradiso del teatro, ogni scena dello spettacolo. E per
rubare tempo alla notte sugli applausi finali chiude e apre sipari senza
soluzione di continuità imponendo agli attori l'ultima corsa prima del
traguardo.
In sala record di presenze con spettatori giunti dai tre paesi del
circondario. Sirone. Norone. Forserone.
Dottor MIKE CONNOLY
Incontro ore 15.00. Si carica il camion a noleggio (Meme ancora fuori
combattimento), le premesse ci sono tutte per un buon spettacolo: già
dal caricamento dei pannelli e dei cubi a qualcuno viene il dubbio di
aver sbagliato lavoro.
Durante il viaggio per raggiungere il teatro: canzoni strappa lacrime e
mani accarezza gambe in azione (le gambe di chi, non si sono ben capite)
La scenografia ridotta all'essenziale va su facile-facile, resta quindi
il tempo per un po' di relax giocando a carte e con esibizioni di
pilates a gambe all'aria e passi della v... (io conoscevo quello del
giaguaro).
Dopo una cena frugale, tutti in scena e... che pubblico... Applausi a
scena aperta come non mai, le battute urlate per sovrastare gli
applausi. Grande serata da ripetere.
Dottor HUBERT BONNEY
Illuminati da un bella giornata di sole, partiamo alla volta di Sirone,
complice un amico del dottor Bonnie. L'accesso facile al palco e la
destrezza dovuta all'esperienza della replica precedente, ci permettono
di aprire una bisca clandestina di Machiavelli. L'accoglienza calorosa
di chi ci ospita ed un pubblico ideale, spronano la compagnia ad uno
spettacolo divertito e divertente che lascerà tutti soddisfatti.
Qualcosa mi dice che torneremo.
ROSEMARY MORTIMERE
Non pervenuta
JANE TATE
Mai avrei pensato di giocare a Macchiavelli comodamente spaparanzata su
un palcoscenico... serata indimenticabile... spettacolo scoppiettante,
pubblico partecipe e molto divertito... a fine serata una signora del
pubblico, ridendo, mi ha detto che a tutti faceva male la faccia a furia
di smascellarsi dalle risa! Touché
CAPOSALA
Tra una partita a Macchiavelli, una esibizione di pilates ed un
giropetto, ci prepariamo ad andare in scena. Ci sorprende piacevolmente
un pubblico allegro, pieno di entusiasmo e calore. Una serata bellissima
con un cielo stellato che ci fa assaporare quanto sarebbe bello
concretizzare il nostro "sogno di un tour di mezza estate"...
SERGENTE
Carrellata di do di petto per gli allegri chirurghi. I do più alti oltre
i 110 altri si attestano intorno i 100 con qualche caduta sotto. Non
parliamo di ottave però ma di centimetri. Il metro, quello della sarta
ha sostituito il pianoforte. Tenori, soprani, contralti hanno lasciato
il posto a dottori, caposala, sergenti, madri e figli. Azione brillante,
allegra ben riuscita. Il vero acuto però l’ha fatto il pubblico. Sirone
non ti dimenticheremo.
LESLIE
Il vento artistico di Carugate spinge nuovamente la Sandero verso nuovi
confini.. Tre navigatori si contengono l'arrivo migliore.. Ma solo uno
ci Indicherà il giusto cammino.. Quando a metà del nostro percorso..
Essi prendono decisioni diverse.. Il mio diceva a sinistra.. Quello di
Patty a destra.. Quello di Marco dritto.. La tensione dentro l'auto si
fa sempre più alta nessuno si fidava di nessuno.. Ma una volta in
prossimità del tempio dell'arte i nostri navigatori trovarono un
accordo.. I miei capelli tutto questo non l'avrebbero sopportato ma
grazie a l'ingegno di Silvia con un colpo di stufetta portatile ha
cementato la mia testa.. il risultato un pubblico stupendo.. una ultima
replica 2018 grandiosa.. E un fermo immagine regalato al pubblico fuori
scena un Leslie con la carta igienica.. Succede solo al Gtt!!!
Prof. WILLOUGHBY
Una giornata magica che ha visto l'alternanza di momenti di pura e
genuina commozione a momenti di totale e sfrenata ilarità , il tutto
impreziosito da un pubblico particolarmente partecipe e caloroso
MAX - TECNICO SPETTATORE
Già erano prepararti al fatto che sarebbe stata una giornata all’insegna
delle misure. La Capo Sala era pronta con la sua cartella, nessuna
misurazione Le poteva scappare. Ma gli attori GTTempo non si aspettavano
di essere misurati anche negli spazi e nelle dimensioni, forse le ultime
sì, ma alla fine sono riusciti a infilare tutto l’arredo e sono
partiti..
Spettacolo che ha cucito sulla bocca degli spettatori tanti sorrisi..
Alla fine è solo questione di metro.
Comenduno -
10 novembre 2018
Dottor DAVID MORTIMERE
In una terra dove il teatro dialettale la fa da padrona, unico testo in
italiano della rassegna per provare a portare in valle anche commedie in
lingua, raccogliamo applausi e consensi oltre ogni nostra aspettativa.
Dottor MIKE CONNOLY
Anche se il pomeriggio è uggioso e il divano chiama a gran voce, i
nostri attori di fronte ad una chiesa imponente e dopo una pizza (con
cameriera che non si fa intimorire dalle divagazioni sugli ordini), lo
spettacolo è stato ben rappresentato e apprezzato.
Dottor HUBERT BONNEY
Mattia salva questa divertente trasferta, addolcita da Jane Tate, resa
piccante da areate calze e annaffiata da dissetante birra conviviale.
ROSEMARY MORTIMERE
Un inizio di pomeriggio con caccia alla chiave, un seguito caricato da
una buona dose di ciucci giganti e lattine extralarge. Risultato:
spettacolo scoppiettante.
JANE TATE
Sabato mattina... aprire gli occhi e pensare “oggi siamo in scena”.
Appena svegli è difficile decifrare se c’è più gioia o senso del dovere
nel dirlo, poi, lentamente le cose si avviano: alcune faccende in casa,
preparo i costumi di scena, penso a cosa cucinare per pranzo. Il
pomeriggio arriva, il tempo è uggioso, si carica la scenografia
chiacchierando e scherzando, il viaggio è agevole, montiamo in fretta
perché non servono tutti i pannelli, il tempo trascorrere in allegria,
insieme. Si cena, ci si prepara e alle 20.45 inizia la magia... lo so e
lo sapevo già questa mattina: “oggi siamo in scena“. Lo dico, lo urlo,
lo penso sempre allo stesso modo: sempre con gioia!
CAPOSALA
Argomento principe del pre è post spettacolo sono stati i collant in
tonalità nude. Alcuni esperti del settore sostengono siano una grave
minaccia alla conservazione della specie umana. Speriamo non diventi
anche questa una questione di... AMOR PROPRIO!!!
SERGENTE
Pomeriggio di manutenzione per la nostra macchina scenica: cambiato la
maniglia della porta, sostituito alcune piastrine del bastone tenda e
picchiato qualche chiodo sui pannelli della scenografia. Tagliando
superato....per ora. Siamo pronti per affrontare tanti altri palchi, più
in forma di prima.
LESLIE
La scalata dall'abisso oscuro è difficile e insidiosa che anche una
piega sbagliata di un solo capello.. può diventare un passo falso per
ricadere nel buio infinito.. L'unione, il sostegno, ma soprattutto il
sorriso che ci contraddistingue disegna altre realtà.. Porta a scalare
vette sempre più alte.. Il risultato? Una vista stupenda.. Grazie a
tutti
Prof. WILLOUGHBY
Divertimento puro a Comenduno.... scioltezza e freschezza per una
serata che ha visto sovvertire la consecutio temporum ...... (io
ventidue anni fa avevo diciotto anni...)
San Martino Siccomario -
12 ottobre 2018
Con questo spettacolo "APPUNTI DI VIAGGIO" cambia pelle.
Lo storico resoconto si trasforma in una serie di tweet che ogni
protagonista lascia ai posteri immortalando in poche frasi un episodio,
un momento, un aneddoto, della giornata dello spettacolo.
Dottor DAVID MORTIMERE
Scarso il tempo e limitata la proposta culinaria, trasformiamo la solita
cena in un happy hour, alle porte del teatro, nel tepore di una sera
autunnale impreziosita da una falce di luna che svetta in un cielo
nitido. Spesa e allestimento a cura della quota rosa del gruppo.
Applausi per le scelte.
Dottor MIKE CONNOLY
Mentre vi seguivo dietro alle quinte col copione, ad un certo punto mi
sono perso tra il reparto A no B, no A è B ma B non doveva dirlo la
Sig.na Tate? o era il dot. Mortimer.... Mah...
Dottor HUBERT BONNEY
Un ritardo imprevisto ha trasformato la cena prima dello spettacolo in
una allegra festa organizzata dalle ragazze, mentre i 'ragazzi'
montavano la scenografia. Tra amici una difficoltà può diventare
un'opportunità!
ROSEMARY MORTIMERE
Ho rinunciato ad un intervento chirurgico per ritrovarmi con un buco nel
vestito e le scarpe che fanno male.
Ma vuoi mettere la soddisfazione di essere sul palco con un gruppo di
pazzi scatenati?!!
Naturalmente non ho trovato né una divisa da caposala che sostituisse il
vestito rotto né un medico per il mal di piedi. Ma che ospedale è? Il
mitico S.Andrea dove sai come entri ma non sai come esci.
JANE TATE
Dietro alle quinte, ho percepito emozioni e sfumature uniche, una
miscela magica, carica di esperienza e di agitazione, speciale... come
la nostra voglia di stare insieme.
CAPOSALA
Quando si dice "Altezza mezza bellezza"... Per questa prima
rappresentazione della stagione si sale ad alti livelli: stasera nuove
scarpe tacco 15 e strass d'argento. L'effetto psichedelico sotto la luce
dei fari pare sia ipnotizzante!!!
SERGENTE
Quanti silenzi nel teatro sono impressi indimenticabili nella mia
memoria più a fondo è più a lungo di pur memorabili voci. Carmelo Bene
per citarne uno. O i silenzi di Edoardo, pause che dicevano più e meglio
di ogni altra parola. Ci sono però silenzi vissuti in prima persona che
sembrano interminabili dove le emozioni più negative (terrore, panico,
ansia) creano il vuoto attorno. Per fortuna c’è chi riesce a riempirlo.
GRAZIE dott. Bonney.
LESLIE
Ricevuta la tua mail Roby ma non mi apre il file... Pensiero della
trasferta x Danilo : "nonostante la natura abbia teso l'arco verso di
me.. con frecce avvelenate di negatività.. Imbevute di malattia..
Carestia dal testo.. ansia e amore per lo stesso.. E infine un alveare
di veste nello stivale... Leslie ha vinto!!!
Prof. WILLOUGHBY
La squisita gentilezza dell'organizzatrice e la vicinanza palco-piazzale
fanno di questo posto un teatro degno di nota ......
REGIA
Il pubblico attento ha seguito con partecipazione la rappresentazione
segnalando con applausi e risate i passaggi più esilaranti. Il regista,
un po' meno attento, ha perso alcune scene chiedendosi se gli attori
avessero volutamente modificato il testo o se si fosse, semplicemente,
abbandonato per qualche istante nelle braccia di Morfeo. Il tecnico ha
poi confermato la seconda ipotesi.
Milano, Teatro Guanella -
11 marzo 2018
Piove. Piove. Piove. Bagnato. Pesante. Senza tregua.
Ma non c’è tempo per distrarsi. Giusto il tempo di arrivare in teatro,
passare il testimone al nuovo tecnico che ieri ha disertato, affidare il
sipario a Susanna, a sostituire il regista che non contento dell’acqua
milanese, ha voluto esagerare con quella di Venezia, sostituire i
biscotti pastosi con i più duttili pavesini, e siamo in scena.
Il pubblico non raggiunge, forse di poco, le tre cifre. Ma esplode
subito. Decuplicato. Centuplicato. Rispetto ai mormorii del giorno prima
e a dispetto del numero dei presenti.
E ritroviamo precisione e carica. E lo spettacolo, interrotto come mai
da risate ed applausi, dopo un imbarazzante scivolone di Mike che
moltiplica anche i presenti - immaginari - della conferenza di scena, si
spiega fluido. Perfetto (possiamo dirlo?)
Quando si accendono le luci di sala restiamo sorpresi per i pochi
presenti che hanno fatta tanta presenza. E un po’ di meriti, dai, ce li
prendiamo anche noi.
Non sappiamo se è lo spettacolo migliore di sempre, ma un posto nel
limbo se lo merita. Fortunato chi c’era.
Una pennellata che cancella la prestazione incolore del giorno prima e
che ci cuciamo all’occhiello. Anche il tempo se ne è accorto. E spiove.
Stipiamo la scenografia nella sequenza del giorno prima. Adocchiamo una
lampada in completo stato di abbandono nei camerini e perfetta per il
nuovo spettacolo. Indecisi se prenderla o chiederla, puntiamo sulla
correttezza, senza però avere risposta certa.
La serata si chiude tra Sushi, Barchette, la rara simpatia di una
cameriera con gli occhi a mandorla e la leggerezza di tante risate.
Adesso però basta scherzare. E’ tempo di cena. Tra amici.
Milano, Teatro Guanella -
10 marzo 2018
Cielo grigio su. Ma ancora non piange. Si limita a promettere.
Minaccioso.
Asciutti si carica un furgone che non potrebbe contenere uno spillo di
più, che tracima, ancora asciutti, quando apriamo porte e sportelli a
destinazione.
Il palco del Guanella, fu Don, di Milano lo conosciamo da un paio di
mesi. E conosciamo le serpentine e le pendenze che la scenografia dovrà
percorrere per atterrare sul palco. Graziati dalla pioggia, tutto
sommato non ci sembrano poi così pesanti.
Il palco è ampio, e la scenografia finalmente respira e si spiega in
tutta la sua ampiezza.
Raschiamo il fondo di una ‘millechiodi’ per incollare i segni del tempo
di una scenografia che, dovendo rappresentare un ospedale pubblico,
sembra ancora più vera.
Check suoni e luci mentre proponiamo alla direzione il nostro nuovo
lavoro, ancora in gestazione, per la prossima stagione del Guanella che
sta invece già partorendo.
Doverosa una prova con chi, dopo oltre due anni, torna a rivestire i
panni di Rosemary Mortimere: le prove fatte in settimana hanno lasciato
aperte troppe ferite.
La scelta della pizzeria non si pone. La Sfinge, che ci ha convito a
gennaio, non si discute. E sotto il ritrovato sguardo inquietante della
statua che da il nome al posto, con nuove angolature, condividiamo
stesse pizze e stesse paste : uguale la bontà, forse peggiorata
l’attesa, anche se siamo i soli a rumoreggiare nel locale.
La pioggia ha deciso di lucidare la strada del ritorno al palcoscenico.
Trucco. Parrucco. Voce e San Genesio. In rapida sequenza. E via a
spolverare uno spettacolo che per la prima volta nel 2018 riesce ad
avere voce.
Ma tutto è arrugginito. Spigoloso. Lo spettacolo scorre deciso, ma è
come se mancasse fluidità e ritmo. Quello giusto. Qualche battuta
dimenticata nel 2017. Qualche incertezza. E il primo atto si conclude
con più perplessità che certezze. E non capiamo se la freddezza del
pubblico che segue ma non esplode sono la causa o l’effetto del disagio.
Parola d’ordine, quindi : reagire. E la parziale riscossa si consuma nel
secondo atto. Più concentrati o forse solo più consapevoli, ritroviamo
quella sicurezza che questo spettacolo dovrebbe ormai avere. Nonostante
le pause. Nonostante tutto. Anche il pubblico sembra ridestarsi e
regalarci un po’ di rumore.
Meritati gli applausi dedicati a Rosemary Mortimere, che nonostante la
partenza con l’handicap ha sciorinato la miglior performance del gruppo.
Il sipario si chiude su uno spettacolo che non avrà commenti, almeno
scritti, ma la possibilità di rifarsi nella pomeridiana di domani. E sin
da subito respirare l’aria del ‘liberi tutti’, visto che la scenografia
resta al suo posto.
La serata si bagna di pioggia e di birra al Beda House, dove, dopo aver
scoperto una nuova specie di Pino dalle velleità amorose, scavalchiamo
coda all’ingresso e ci godiamo gli ultimi scampoli di giornata prima
della stanchezza.
Offanengo -
2 dicembre 2017
Si inizia facile. La replica della sera prima ci evita la fatica del
carico. Ed è piacevole anche l’arrivo nella nuova sala dell’Oratorio di
Offanengo, recente, che ha sostituito quella che tanti anni or sono (per
la cronaca era l’11 febbraio 2006) ha ospitato una delle nostre prime
Cene. Il progetto ha lesinato nelle attenzioni verso il pubblico,
costretto a sedersi su sedie che appaiono e scompaiono all’occorrenza
(gioia e dolore delle sale polivalenti) ma ha investito in palcoscenico,
tecnica ed accessibilità.
Come la sera prima, anche qui tutta la scena riveste di nuovo il
palcoscenico, forse meno caldo di quello di Albavilla ma almeno la
temperatura si mantiene in un costante accettabile purgatorio tra palco
e camerini.
Si fa tutto veloce e veloce ci si incammina verso il miraggio della
pizzeria Cicci Coccò, meno vicino di quanto supposto. Parte del gruppo è
ancora intrappolato nella serata di premiazione del concorso letterario
“Liberi di Scrivere”, a cui ha prestato la voce. Tema il silenzio, rotto
dalle troppe parole del presidente di giuria in una contraddizione che
ancora non ha capito. Finalmente “Liberi di Andare”, dopo un frugale
aperitivo rubato alla premiazione, raggiungeranno il resto del gruppo
per un dolce che sostituisce oggi l’ottima pizza del locale, che brilla
per sapori ma pecca di lentezza in un servizio che dimentica per strada
ospiti e caffè, affidati alle mani inesperte di chi inizia questa sera
il cammino verso la pensione.
Rientrati in teatro ritroviamo l’energia e la simpatia del bel gruppo
che gestisce con entusiasmo e, forse, troppi formalismi, la sala.
Burloni, nascondiamo più volte la gonna verde di Connolly per una nuova
mirabilante impresa da record, ma il dottore è attento e tutto, oggi,
pronto.
In sala poca gente, poco l’incasso e poco il rimborso, percentuale del
tutto. Ma il teatro, quello amatoriale, si nutre di applausi, il cibo ce
lo procura altro, quindi… va bene uguale.
Un annuncio come nei teatri ‘veri’ sancisce l’apertura del sipario.
Le prime battute ci ritornano una strana eco, palestrata, più che
teatrale. Ma ci si abitua in fretta.
Un moscone, intontito da freddo e proiettori, punta stancamente gli
attori in scena, per posarsi, spossato, sulla mano del protagonista
senza voler sapere di andarsene, costringendo l’attore a nuove scene.
Nel secondo atto dirà la sua invece un ragno, intento a tessere una tela
che lo spettacolo non può compromettere.
Decisi a non cedere alle lusinghe di portare Quark insetti in scena,
procediamo imperterriti con lo spettacolo.
Il rumore del pubblico fatica ad arrivare sul palcoscenico. Lo sentiamo
distante, sussurrato. E la distanza che percepiamo rende tutto più
faticoso, meno coinvolgente. Ma il pubblico c’è, e scavallati i rigori
del freddo, arriva in un crescendo di risate ed applausi che non
smetteranno fino alla fine, anche senza claque
Alla fine foto per tutti e con tutti, stampa compresa.
Si stappa un durello, bollicine che alimentano battute. Alla prossima
replica toccherà al Passerina, per dover di quota rosa anche nel vino.
Si smonta con braccia amiche e baffute che ci hanno raggiunti per lo
spettacolo e che ingaggiamo per la fatica.
Trolley al seguito, lasciamo la sala che sembra un aeroporto.
Prossima meta il 2018. Le repliche di quest’anno finiscono qui.
Albavilla -
1 dicembre 2017
Previsioni e cielo minacciano neve. E il terrore si insinua nell’animo
di qualche attore che passerà il resto del giorno con il naso al cielo e
gli occhi al meteo.
Con noi oggi grillo Mattia, che rivoluziona il supporto tecnico da cd a
pc.
Puntuale si presenta all’appuntamento con il carico facendo manovre
millimetriche per districarsi tra musi e carrozzerie. Si parte presto
anche, se di venerdì, e presto arriviamo a destinazione, dribblando di
poco il traffico di fine settimana che si sta accatastando intorno a
Milano.
Arriviamo ad Albavilla all’imbrunire, in un paesino vestito di Natale
che ci accoglie con il fascino delle prime luci della sera. Affrontiamo
spensierati le pendenze che la neve promessa avrebbe reso complicate e
scivoliamo sul palco dal facile accesso e dal tepore quasi eccessivo.
Ci ricordiamo di questo bel palco che due stagioni fa ha ospitato la
cena e che oggi torniamo a far vivere con un nostro spettacolo.
Tutto la scenografia transuma da furgone a palcoscenico e trova ordine e
posto, senza sbavature, come fosse stata disegnata per questo teatro.
Abbiamo così il tempo per un rigoroso puntamento luci e una prova
tecnica veloce, per rivedere i volumi da stadio e riportarli
all’esigenza del luogo.
Si da appuntamento a chi arriva per la cena direttamente al ristorante,
l’Elvis di Albavilla, dove la pizza non è molto rock, ma il ciuffo del
cameriere fa molto Bobby Solo. Si salvano le linguine alle vongole,
anche se la grattugiata di bottarga che si perde nei gusci, non riesce a
migliorare.
I ritardatari ordinano via web da menu telematico per arrivare, sedersi,
mangiare e ammortizzare il ritardo.
Alla futura regista non fugge il salottino che accoglie gli ospiti nel
locale, ideale per composizione e genere, per la nostra prossima fatica
ancora orfana di scenografia, ma non è in vendita, e la provenienza
sconosciuta. Peccato.
Si torna per i vicoli montani, bui e freddi, tra odor di legna arsa,
verso il tepore del teatro. Occhi al cielo a cogliere i primi fiocchi,
che ancora non arrivano. A far capolino oltre la sagoma nera delle
montagne che qui iniziano a salire, una bella luna luminosa. Chi opta
per il rientro in macchina raggiunge il teatro solo dopo aver valicato
un passo tra dimenticate vie partigiane che ancora ne conservano il
nome.
Dal paradiso del palco all’inferno dei camerini, dove il freddo e le
tende militari sembrano più un accampamento deserto afghano che un
sottopalco teatrale.
Ci cambiano battendo denti e record, per esporre meno possibile la pelle
ai rigori dell’inverno che qui sembra alloggiare.
Nessun preambolo prima dell’apertura del sipario, che si apre
direttamente sul nostro spettacolo.
Si parte in salita per il dottor Connoly, che, dimenticata la gonna
verde all’inferno, è costretto a battere Bolt per recuperare l’oggetto e
rientrare in scena senza ritardi e senza fiato. Le prime battute
arrivano miste a fiatone. Poi l’attore riprende colore e con lui lo
spettacolo.
Che si srotola degno e piacevole di fronte ad un pubblico non
particolarmente numeroso, ma caldo e partecipe, capitanato da una claque
involontaria che sarà la sorpresa di fine serata.
Mattia riesce a mettere in scena il “jingle bells rock” più bello di
sempre, scivolando invece su telefonate e sergente, ma senza danni
evidenti.
Alla fine applausi e apprezzamenti per tutti. Per l’abile tecnico, per
la gotta del regista, all’occorrenza anche siparista, e per il
Professore, che oggi compie gli anni. Mirabile la sua performance e
indimenticabile la sua faccia, di stucco, quando scopre che dalla sala
si alza la sua sorpresa : famiglia e amici che sono venuti a vederlo
prima e, ora, a festeggiarlo.
Taglio della torta sul palcoscenico centellinando una bottiglia di vino
come neanche a Cana.
Poi si ripiega, ordinata come mai, la scenografia nel camion, con la
bella prospettiva di non dover scaricare e caricare: domani si replica,
con il piacere di un po’ di fatica in meno.
Salutiamo i simpatici e gli intraprendenti organizzatori che hanno
aggiunto braccia (le loro) a braccia (le nostre) rendendo tutto più
facile, veloce, leggero.
Chiudiamo il camion, leggendo i simpatici commenti sotto i primi (e gli
ultimi) fiocchi della neve annunciata e che ora, per onor di firma, deve
fare capolino. E basta un niente per sentirsi a Natale.
Auguri Bobone.
Milano, Teatro Stella -
26 novembre 2017
Lo spettacolo è alle 15.30.
L’appuntamento con gli attori è per il caffè delle 14.30. Ristretto
quindi.
Che salta. Però. Quando all’appuntamento si arriva in ritardo qualcosa
si deve sacrificare. Il caffè o il personaggio. Decidiamo per il primo.
Si arriva leggeri, oggi, ammortizzati dalla fatica anticipata il giorno
prima.
E mentre il nostro tecnico svolazza leggero, di foto in foto, con il
nuovo pesantissimo tele obbiettivo fresco di mutuo a fotografar briciole
da galassie lontane, i personaggi prendono forma decisi a ridare colore
alla sbiadita replica della sera prima. Prova d’orgoglio insomma.
Il rumore che arriva dalla platea riempie sala e cuore. Oggi, con il
sole e l’azzurro terso del cielo, è tornato anche il pubblico. Numeroso.
Rumoroso. E a rumore aggiungiamo rumore quando, spuntata una sega
dall’attrezzeria del teatro in zona cesarini, trasformiamo in segatura
le sporgenze e carta igienica che ancora minacciavano teste e cast.
Il regista oggi porterà la sua gotta altrove. A sostituirlo, per dare
continuità al bel gioco sul sergente, Acqusantiera Mattia, tecnico
aggiunto.
L’atmosfera è rilassata. Troppo. Si scherza con una aspirapolvere Hoover
in scena quando, improvvisa, parte la sigla dello spettacolo. Un amen
per capire cosa sta succedendo, trasformare la sorpresa in azione,
liberare il palcoscenico da cose e attori superflui e tuffarsi nel
personaggio.
E ritroviamo ritmo, lucidità e freschezza come poche altre volte. Con
iperboli di intenzioni e mimica che il pubblico ci restituisce sotto
forma di risate risate e risate che rischiano di tracimare sul
palcoscenico a coinvolgere anche gli attori. La perfezione non esiste,
oggi però ci siamo andati vicino. E non scalfisce questa consapevolezza
un commento che rade al suolo lo spettacolo. L'organizzazione ci
racconterà che il latore ha smarrito da tempo per via, ragione e
sentimento.
A scheggiare il candore della pomeridiana la consapevolezza che dopo il
piacere della messa in scena ci aspetta il dovere della fatica. Che
diluito su due giorni, ben si sopporta. In fondo anche il tempo, forse
per omonimia, minaccioso ieri, è stato comunque dalla nostra. A
bagnarci, a fine giornata, sarà solo l’aperitivo che l’abdicante Meme ci
fa trovare ai box. Al buio, si, ma meno tardi e quindi meno silenziosi
del solito.
Milano, Teatro Stella -
25 novembre 2017
Pioggia. Ancora. E ancora smette. Quando deve.
Carichiamo umidi, ma non bagnati, veloci e alla rinfusa per evitare che
il maltempo decida di interrompere la tregua. Ci accoglie il calore e il
colore (nazional trino) della sala dello Stella, che dopo i successi
dello scorso anno ha deciso di proseguire la collaborazione, dopo la
cena, con i chirurghi.
E come in passato, allo spettacolo di oggi si aggiunge la pomeridiana di
domani, con la bella prospettiva di due repliche e quella ancor più rara
di non dover smontare dopo lo spettacolo.
Ad attenderci il professor Willoughby. La casa a un tiro di schioppo,
con alzo neanche troppo elevato, gli regalano la felicità della
velocità.
In un sali e scendi di scale che mettono a dura prova muscoli e gambe,
la scena si incunea alla perfezione tra le quinte e i pilastri del
palco, sfruttando in parte l’idea già partorita a Biassono, di dare
movimento (più per esigenza che per scelta) inclinando di qualche grado
la parete di fondo.
Tra un sali e un scendi ci raggiunge, zoppicando ma meno del solito,
anche il gottoso regista, in visibile recupero.
Fissiamo l’ultimo pannello in un gioco di assi e morsetti che ricorda
l’antico Egitto per complessità, la torre di Pisa per precarietà, con
sporgenze che, per evitare di decimare il cast, evidenziamo con
abbondante carta igienica.
La presenza di un occhio di bue ci suggerisce l’idea, subito accolta,
provata e messa in pratica, di dare volume alla scena madre del sergente
con l’enfasi della penombra e del seguipersona.
All’ombra di un “vietato fumare” da guinness per dimensione e
inquietudine, riaffiorano i ricordi di una agonia di una Yaris che oggi
non c’è più.
Lottando con un cellulare scarico che non sputa date e disponibilità,
troviamo la quadra, dopo 10 anni di distanza, per una replica della CENA
nella Castel Goffredo che ha dato i natali ad uno storico Cheval.
E non c’è più tempo per nulla, se non per ritrovare per alcuni, scoprire
per altri, la gustosa pizza al trancio de “Il ceppo folle”, proverbiale
per sapore e memoria del cameriere. E da oggi anche per un ceppo di
emorroidi urlate che arriva a destinazione mettendo in imbarazzato
tacere l’intera sala.
Il pubblico trova facile posto in una sala che resterà per tre quarti
vuota e che avrà il solo primato di contare più teste della media.
In scena uno spettacolo senza lode, macchiato da un David senza
mordente, che fatica a decollare e troppo spesso inciampa. Sorprendono
quindi i tanti applausi a scena aperta che mitigano in parte la nostra
sensazione di mediocrità.
Raccogliamo gli ultimi applausi che dividiamo con claudicante regia e
mirabolante tecnica, lasciando in ultimo il proscenio alle nostre
attrici, come piccolo semplice gesto maschio nella giornata che celebra
la lotta contro la violenza sulle donne.
Due colpi di stiro alla scena per trovarla pronta l’indomani e
tramutiamo lo smontaggio in birra, intorno al solito tavolo del Sajo.
Biassono
- 27 ottobre 2017
In una giornata di sciopero nazionale dei trasporti e corso locale
sulla sicurezza, sono messi in discussione i normali tempi di trasbordo
scene.
Così, costretti dalla sicurezza a partire a ridosso del tramonto e dallo
sciopero ad aumentar i tempi del tragitto, si decide di tenere a bada i
succhi gastrici secondo la libera intraprendenza di ciascuno, e di
dedicare l’incerto tempo a nostra disposizione al montaggio scene.
Il vezzoso palco (e il teatro tutto) che lo scorso anno ha incorniciato
agilmente la Cena dei Cretini, mette in difficoltà la composizione della
meno agile scena dei Chirurghi, costringendo a nuove geometrie finestra
e porta che, obliquamente, si perdono nelle buie profondità del palco.
Funambolicamente vengono fissati alle piccionaie anche i pannelli
laterali e con poche cose ripieghiamo il S.Andrea nel piccolo boccascena
di Biassono. E il risultato ci piace.
Il poco tempo che resta prima del cambio d’abito è dedicato ad un
frugale improvvisato pasto nei caldi camerini, arricchito da chiacchiere
e dagli oggi più che mai apprezzati dolci di compleanno di Leslie : se
in scena il tempo si è fermato dalla prima replica sui suoi 18 anni, nei
camerini scorre imperterrito e ha segnato due giorni fa un’altra tacca.
Fugge al destino solo il nostro tecnico che si ritaglia il tempo per la
tradizionale pizza pre spettacolo : la sicurezza, probabilmente, mette
appetito.
Con la bocca ancora impastata di auguri ci dividiamo, per gender, sui
due piani dei camerini : soppalcate le donne, scantinati gli uomini.
Il tempo di un san Genesio e poi sul palco, a respirare, prima delle
luci della ribalta, il brusio del numeroso pubblico che quasi gremisce
platea e galleria.
Le “minchiette” di gatto, che oggi hanno preso posto delle più pudiche
lingue, ci strappano l’ultimo sorriso prima del sipario. E via!
Sala e spettacolo si scaldano subito, in un continuo scambio di calore,
che rende tutto fluido e divertente sia per chi guarda, sia per chi fa.
Qualche sbavatura, che altrimenti potremmo definire di troppo, viene
quasi impercettibilmente assorbita dalla sicurezza e spontaneità che man
mano lo spettacolo trasmette.
E su un sipario che non vuole chiudersi, salutiamo la vera gotta del
regista, che ancora non da tregua, e le presunte emorroidi del tecnico
(e che ci auguriamo restino tali).
Rimangono in sala, per un saluto privato (apprezzato) e una mano allo
smontaggio (gradito) gli aficionados di sempre che oggi hanno esteso il
nostro pubblico fino al Brasile con un ospite che, sua e nostra la
sorpresa, porta il nome della suora “… molto larga, piena di grinze,
grigiastra...” che apre lo spettacolo.
Le poche cose trovano velocemente la via del ritorno, mentre allertiamo
l’organizzazione di un Moka che ha trovato posto in rassegna sotto
mentite spoglie.
Tra noi c’è chi parte per la grande mela, a correre in rosa per la vita
o solo per turismo.
E chi resta, provando a chiudere la serata in chiacchiera al solito
“Sayo” per ritrovarsi, rifiutati dal primo, a recuperare la cena perduta
allo Stregone che, magia, non chiude mai.
Sannazzaro de Burgondi
- 14 ottobre 2017
All’ombra di una cena (tra amici) che ancora non decolla, si apre la
nuova stagione di repliche ed inediti del Gruppo. A spalancare i
battenti spetta ai Chirurghi, che spolvererà il palco di Sannazzaro de
Burgondi, che con noi apre sipario e rassegna.
Lasciamo quindi Pavia alle spalle, vento nei capelli, sole negli occhi,
per raggiungere quella piana che risplende tersa di giorno, in un’estate
che ancora non se ne va per trasformarsi fumosa di nebbia di notte.
Ma la notte ha da venire, e l’energia del rinnovato debutto che olia
ingranaggi fermi per ferie da quel dì, insieme al tepore di un tiepido
autunno, ci regalano serenità, metodo e spensieratezza.
Ad accoglierci il Sociale, pezzo di storia del teatro (architettonico)
della cittadina, e Giovanni e Carlo, pezzi di storia del teatro (umano)
locale; il primo per gestione, il secondo per azione scenica.
Un’occhiata al palco che lo scorso anno ha ospitato la cena, e subito ci
torna alla mente l’ampio proscenio ed un sipario tanto arretrato da
essere inutile ingombro.
Ma si monta senza fatica. L’estate non ha cancellato sequenze e compiti
e tutta la scena tutta, trovo posto sull’ampia piazza che ora attende
solo gli attori, alcuni ancora in viaggio, altri ancora negli stanchi
panni dei montagisti.
Quando il profumo della pizza già riempie l’aria, fa capolino il lento
zoppicar del regista che, galeotto fu lo spettacolo, reduce da
operazione e degenza per gotta (si, solo gotta), lentamente sta
riconquistando mobilità e palcoscenici.
La pizza è quella ‘convenzionata’ dello scorso anno. Stessa lentezza,
stessa indecisione, stessa pizza che sembra buona al primo boccone ma
che poi già stanca al terzo per ‘pesantezza’. Unico vezzo, l’assenza
sentita ed immotivata, del cameriere agghindato da prima comunione che
lo scorso anno ha saputo far parlare di se!
Nei camerini, l’aria ha mantenuto, per fortuna solo sfumata, la stessa
fragranza dello scorso anno, rendendo quindi meno traumatico l’impatto
postprandiale con il palcoscenico. A compensare il sapone dei bagni di
sala che, ad ogni utilizzo libera profumi che potrebbero rinfrescare una
intera discarica.
Il nostro tecnico si posiziona in sala, il pubblico, abbastanza
numeroso, prende posto, noi indossiamo i nostri abiti senza trucco e
senza inganno, e dopo un’esitante presentazione della qui pro quo loco
locale, che si arrotolata in un discorso che non riesce a sbrogliare, si
parte.
Ricalchiamo quello che spesso accade alla ripresa dei lavori dopo una
lunga pausa. Lo spettacolo perde forse, in modo quasi inafferrabile, un
po’ di ritmo, ma ne guadagna in interpretazione e misura. Qualche
piccola incertezza dovuta ad improvvisi bui che qualcun altro toglie
tempestivamente dall’ombra, senza lasciare tracce o intaccarne il ritmo.
Il pubblico si diverte. Tanto. Su tutti le risate di alcuni ragazzini in
sala che seguono attentissimi le vicende sul palco, come fosse un film,
ma dal vivo.
E gli applausi che alla fine chiudono lo spettacolo, e che non vogliamo
fermare, sono tanti e fragorosi.
Il regista si prende la sua dose zoppicando fino ai piedi del
palcoscenico, ancora non è pronto per salirne le vertiginose altezze.
Violiamo la sua privacy raccontando la sua gotta. La parte delle
emorroidi spetterà al tecnico, che si ridesta dal torpore dell’ennesima
replica e si diverte con noi.
Scopriamo che la rassegna ha anche una sfumatura agonistica. Si vota dal
5 al 10 per eleggere quello che a fine stagione risulterà il miglior
spettacolo ad insindacabile giudizio del pubblico. Ci divertiamo ad
infarcire di ‘10’ il piccolo epitaffio di chiusura spettacolo per
colpire in modo subliminale, ma poi neanche tanto, l’intenzione di voto
dei presenti.
C’è chi parte subito per la maratona del giorno dopo nella patria del
culatello, e c’è chi smonta.
Come concludere? “Buona la prima”.
Carugate
- 21 aprile 2017
Si gioca in casa. Per una replica pensata per il sociale a sostenere
gli eredi di un disastro nucleare che ancora oggi non siamo riusciti a
cancellare.
Il tragitto tra box e palco è praticamente nullo, ma riusciamo ad
azzerare il fattore campo con un ritardo che impegni lavorativi, barbe e
brufoli riempie di ragnatele il furgone aperto su una inutile attesa.
Poi finalmente le braccia, tanto attese, a caricare più di getto che con
giudizio.
Per ammortizzare il tempo bruciato dall’attesa si monta prenotando gli
ultimi biglietti di una sala che va riempiendosi e raccogliendo, tra
presenti ed assenti, la comanda per le pizze che, rispolverando sane e
vecchie abitudini, si consumeranno in piedi nel foyer del teatro.
Missione compiuta.
Il palco si traveste di noi, nel miglior colpo d’occhio che questa
scenografia possa dare, perché qui pensata e qui nata.
Nel frattempo il cerchio magico si ricompone, e tutto è pronto per la
pizza allargata ai tecnici di tutti i tempi e di tutti li spettacoli. Su
di noi, come una nuvola, vaga lo spettro di Massimo Renga, nato da una
gaffe radiofonica di Leslie, che ci regala una attesa di battute e
risate. Sotto di noi, presenza fisica ma silenziosa, il fotografo della
Fondazione Veronesi, che inanella una serie infinita di scatti a
testimoniare la vita, ora serena, di ha sconfitto il cancro ed è tornato
a vivere con nuova linfa.
Le prime e ultime indicazioni all’associazione a cui abbiamo destinato
lo spettacolo e che dovrà gestire l’accoglienza e liberare posti
prenotati dal troppo ottimismo e ci prepariamo, con rinnovata emozione,
a ripercorrere il nostro palcoscenico.
La sala si riempie, ma non del tutto. Qualche posto vuoto in piccionaia
non consente di registrare il tutto esaurito. L’affluenza è comunque di
quelle da grande occasione e tra il pubblico, oltre ai soliti
fedelissimi, ci piace scorgere tanti sconosciuti, che rendono più vero
lo spettacolo.
Due parole due, di circostanza, offerte dal giovane sindaco e si parte.
Trattenuti.
Qualche incertezza supera l’esperienza e fa scricchiolare le prime
battute dello spettacolo, che poi si scuote dall’emozione imposta dal
palco di casa e trova finalmente vigore e determinazione. Cura e
dettaglio. Senza soste. Senza più incertezze. Per esplodere negli
applausi finali e nella pioggia di commenti che il pubblico ci farà
trovare all’uscita.
Soddisfatti di una serata che ha stregato anche il fotografo, rimasto
fino alla fine nonostante i diversi propositi, palco e sipario lasciano
il posto a pane e salame. Stessi colori altri sapori. un buon rosso
allarga i sorrisi. E si brinda al compleanno del Dottor Connolly, che
raggiunge il mezzo secolo, e a noi, che stiamo bene insieme. Da un
secolo.
Lissone
- 17 marzo 2017
Il venerdì è un giorno storicamente critico, perché sulle spalle
della messa in scena amatoriale gravano le fatiche professionali della
settimana. A questo venerdì si aggiunge il beffardo 17. E per non farci
mancare nulla, al viola dell’orologio di Mortimere, per sfidare spavaldi
la sorte i tecnici aggiungono ripetuti e ripetuti e ripetuti passaggi
sotto la scala che, aperta per rifinire il puntamento dei fari diviene
subito amplificatore di mala sorte.
Si! “I tecnici”. Due. Oggi abbiamo la fortuna di avere in forza quattro
braccia. Roba non da poco considerato il poco tempo e la stanchezza
della settimana già declamata in apertura. Al glabro Meme contrapponiamo
il messianico look del Mattia.
Al via mancano però i camalli e, persi i rudimenti del carico, finiamo
di caricare i pannelli senza assicurarli con le funi della tranquillità,
costringendoci ad inventare un inedito gioco di incastri che ci consenta
di arrivare alla non lontana meta, in sufficiente sicurezza.
Lissone la meta. Il tabellino parla di pochi chilometri che diventano
tanti minuti per il traffico dell’ora di punta. Ma siamo puntuali,
nonostante la ZTL che, aperta solo al furgone, costringe gli attori al
cimiteriale parcheggio, che la luce del sole ci trasmette vivo ed
accogliente. In vociante processione raggiungiamo il teatro che ha già
ospitato una nostra cena in un lontano passato e che solo l’apparire
della piazza prima e della sala poi, riportiamo finalmente a galleggiare
nel mare dei tanti ricordi di palchi trascorsi.
La sala è piccola ed accogliente, ricavata in uno spazio che ha la
struttura del teatro e un anima da auditorium. Anche il palco non
abbonda in dimensioni, regalandoci la soluzione minimal che prevede di
allestire solo il fondale della scena, riducendo fatiche e tempi di
montaggio e promettendo altrettanto alla fine dello spettacolo. E tutto
fa gioco alla scommessa tra attori che si possa essere di ritorno per le
12.30. Oggetto del contendere, manco a dirlo, la birra dell’attore.
E mentre i tecnici regolano fari a vertiginose altezze, gli attori si
dividono tra montaggio, caffè e sigarettine, finendo con provvidenziale
anticipo per gongolarci, senza fretta, verso la pizzeria che divide la
piazza con il teatro.
All’aperto c’è chi tira calci ad un pallone e chi tira altro, riempiendo
aria polmoni di densa leggerezza.
Al “Civico 36” l’atmosfera è simpatica e rilassata. Molto rilassata.
Troppo rilassata. Con calma si prendono le comande direttamente sullo
Smartphone, e con calma le comande troveranno posto sul tavolo. Ma
abbiamo tempo, e se accorge anche il nostro tecnico che evita di
scandire il passare del tempo con le abituali esortazioni alla smossa.
Le pizze, con impasto salutare approvato anche dall’associazione
nazionale dei medici salutisti, sottili e gustose trovano l’approvazione
di tutti. Gli gnocchi, affogati nell’amaro liquido ella mozzarella di
bufala, saranno sicuramente anch’essi salutari. Fossero anche
commestibili sarebbe meglio.
Si torna in teatro dribblando led che esplodendo dal pavimento, colorano
l’aria della piazza uccidendo la vista e il buon gusto.
Ci prepariamo tra effluvi che abbattono barriere e concimano i camerini,
mentre il pubblico viene tenuto a bada, fortuna loro, fuori dalle porte
della sala fino alle 20.45 e oltre, discutibile ma oggi provvidenziale
scelta dell’organizzazione.
Due gocce di camomilla nell’occhio del sergente che non da tregua e che
promette battaglia, breve preambolo alla mezza sala accorsa e sparsa in
platea, e il sipario spalanca al pubblico uno spettacolo con un bel
ritmo, qualche scivolone ben gestito e qualche eccesso interpretativo
che non scalfiscono le risate che ci accompagneranno, fragorose, per
entrambi gli atti, costringendo il Mattia ad interrompere la
preparazione dell’esame di acustica per le troppe risate che suo
malgrado è costretto a condividere con la sala. Lo ritroveremo in
galleria rassegnato a rimandar lo studio ad altra data.
Gli applausi finali, che lasciamo scorrere come mai sino ad ora, si
chiudono con gli auguri a sorpresa alla nostra Rosemary che oggi
festeggia, fuor di personaggio, l’onomastico che profuma d’Irlanda.
Si smonta veloci per numero di tecnici (tanti) e di pannelli (pochi),
senza sentire la mancanza di Connoly intento a condividere i racconti di
una vita con amici che non vede da una vita, ignaro intralcio al deciso
defluire degli oggetti di scena. Per accorgersi, a giochi fatti, che il
palco sgombro suona la campanella della ritirata, costringendolo ad un
veloce cambio d’abito per saltare sul camion in corsa già in rotta verso
casa.
E si perde, lui per disattenzione altri per scelta, la birra di Desio
che chiude di buon grado un venerdì 17 che abbiamo saputo sconfiggere,
nonostante tutto.
Sono le 12.15… scommessa vinta.
Ceriano Laghetto
- 21 gennaio 2017
Al peggio, è proverbiale, non si pongono limiti. A Ceriano Laghetto,
che oggi torna ad ospitarci, sappiamo aspettarci la fatica di una
agevole ma antipatica rampa di scale che, ben digerita dalla Scommessa
dello scorso anno, si presenterà più ardua e faticosa con l’ingombrante
e a tratti pesante scenografia dei Chirurghi.
Ma era tra le clausole del preventivo.
Quello che non avevamo previsto era la defezione dei più per una
influenza fulminante e dilagante che costringe gli attori al palco ma
non al facchinaggio. E anche qui, in fondo, possiamo ancora cavarcela.
La “…cerchia che si restringe fino a diventare un cappio…” la scopriamo
solo in loco, quando una importantissima partita di calcio, in gioco le
sorti del mondo, non ci consente di raggiungere la tanto agognata rampa
di scale, ma ci costringe a dribblare i tifosi (più attenti alla
chiacchiera che alla partita) attraversando un interminabile portico che
sfianca le poche forze a disposizione.
A parziale consolazione un palco che per scarsa profondità riduce il
numero dei pezzi da portare a destinazione. E un ascensore che ascende,
ma solo la minuteria.
Portato tutto il carico a destinazione e ripreso il fiato lasciato sul
tragitto, è fin troppo agevole il montaggio e quasi senza accorgercene
la scenografia è incastonata.
Aspettiamo gli attori che mancano all’appello, riserviamo i posti al
folto gruppo di amici che passeranno la serata con noi, diamo nuova sede
alla sedia a rotelle, ridotta a brandelli dal tempo, e siamo pronti per
dare sfogo alle fauci all’Osteria San Giuseppe, che, gradito il
pensiero, si accorgerà, a distanza di un anno, del nostro ritorno. Come
noi ricordiamo un servizio lento ma curato che centellina le buone
pizze. A condire le pietanze i racconti del tecnico aggiunto, da due
giorni tornato da un'India che ci srotola sulla tavola a suon di fritto
misto (giusto per riprendere confidenza con la cucina nostrana).
Tagliamo il freddo, che si è fatto buio e gelido, tornando in un teatro
che aggiunge qualche grado alla temperatura esterna, ma non abbastanza
per raggiungere la sufficienza. Si fa quindi veloce il cambio d’abito
che a tratti, più che cambio si fa aggiunta. E non si scalda (di
pubblico questa volta) neppure la sala che resta deserta per popolarsi
in zona sipario di un manipolo di avventori, la metà noti, che si
sparpagliano sugli spalti nel vano tentativo di fare volume.
Il sipario si apre lento, molto lento, offrendo anche agli attori la
landa della platea, senza però scalfire concentrazione ed entusiasmi. E
in scena cala un primo atto ineccepibile. Il pubblico gradisce. E
rumoreggia, convinto, con un sostegno che moltiplica le presenze e copre
i piccoli sussurri degli attori dietro le quinte che, per una strana
conformazione del palco che amplifica e trasporta le voci, si fanno
grandi in scena.
Perde convinzione il secondo atto, più caotico, meno pulito, con una
girandola di nomi che arrivano a scalfire quelli propri degli attori. Ma
la platea è ormai annegata nella trama e si lascia trasportare dagli
eventi ignara delle sbavature.
Menzione particolare per il presidente del consiglio d'amministrazione
che, imbeccato tra un morso di pizza e l'altro, gonfia di autorità e
rigore il personaggio, e per la Caposala Flint, che riesce ad esprimersi
ai soli alti livelli nonostante le energie al limite.
Ci gustiamo gli applausi dei presenti che si chiudono su un impacciato
siparietto dell’organizzazione che, imbeccata per sottolineare con una
targa i 50 anni del protagonista, finisce per augurare un futuro senza
la durata e lo splendore del passato. Obbligato il rito scaramantico.
Salutato il pubblico vero, si festeggia il mezzo secolo con quello
amico, a suon di candeline, strudel, cartellate e bollicine.
Disubbidiamo l’arbitro e una veloce corsa sulla fascia destra del campo
permette (questa volta sì!) al camion di raggiungere le scale che
portano al paradiso attraverso un purgatorio meno duro e, forti anche
nel numero, rispediamo la scenografia al mittente.
Gattinara - 14 gennaio
2017
Giro di boa. E la seconda parte della stagione si avvia con
rinnovato entusiasmo per la ripresa dei lavori e l’ombra ancora densa e
lunga del lutto che ha colpito la nostra regista, e tutti noi, che
fatica a diradarsi.
Ad attenderci, le braccia aperte di Gattinara, che al calore
dell’incontro, aggiunge aria frizzante e leggera e una spruzzata di
bianca neve che rende suggestiva la trasferta senza dare noia al
viaggio.
L’ultimo miglio lo percorriamo attraverso due ali di manifesti che
annunciano lo spettacolo della sera. E ci piace.
Il furgone si fonde con il palcoscenico in un tutt’uno che rende
indolore, quasi piacevole, il montaggio delle scene, sempre più
bisognose di un ritocco che le riporti al decoro del ruolo, mentre la
quota rosa del gruppo vaneggia al dovere, il piacere dello shopping.
Mezz’ora di chiacchiere e cazzeggio dove si mettono le basi di future
fatiche e guadagniamo il ristoro da MI&CEL, gastronomia con cucina con
cui avevamo concordato un leggero menu a base di affettati, polenta e
spezzatino, con una più leggera alternativa solo per chi ha fatto scelte
animaliste. Tutto gustoso, abbondante e, per i soliti noti, con il
prevedibile raddoppio. Nessuno ha lasciato.
Si torna in teatro attraversando il cuore della bella cittadina, ora
gelida e deserta, che al fascino dell’antico borgo ha affiancato una
avveniristica fontana in vetro e luci cangianti.
Abbiamo il tempo per riportare con calma alla luce i nostri personaggi,
tra improbabili film a base di aragosta, e siamo in scena, curiosi di
misurarci, ancora una volta.
Sul palcoscenico lo spettacolo ci pare lento, a tratti frenato, più
pensato e misurato che istintivo.
Dalla platea risate e partecipazione oltre ogni aspettativa.
Un faro decide di farsi luce sugli altri, spegnendosi, imponendo una
zona d’ombra laterale e tutto sommato marginale che toglie simmetria
senza rovinare lo spettacolo.
Raccogliamo il plauso, la simpatia e il calore di pubblico e
organizzazione ancora incerti del vero esito dello spettacolo. Saranno
la critica del nostro intransigente tecnico e il parere degli amici al
seguito, anziani ormai di tante repliche, a confermare la qualità di uno
spettacolo che è stato forse meno divertente per noi, intenti a colmare
con l’attenzione la pausa di qualche mese, ma più gradevole per il
pubblico, che ne ha apprezzato il cadenzato ritmo e la giusta
intenzione.
Dipanate anche le ultime ombre sulla prestazione e dedicato l’applauso
anche alle Meme’s Angels, si ripiega l’intera scenografia sul furgone
con la stessa leggerezza del pomeriggio.
Allo scoccar della mezza, ritrovate le disperse ragazze trasformate in
comari nella sauna dei camerini, si lascia il bianco di Gattinara con la
promessa di tornare con un nuovo lavoro, per loro e per noi.
Nei giorni a venire scopriremo se saremo in grado di mantenere la
promessa.
Milano,
Cine Teatro Maria Regina Pacis
- 5 novembre 2016
Giornata che
si preannuncia in salita per il numero di incognite che rendono di
improbabile soluzione l’equazione.
Oggi cambio di tecnico. Non perché lo storico, a furia di false
testimonianze, ha deciso di convolare, ma solo per consentirgli una
pausa tra i mille impegni, sempre teatrali, del periodo. A sostituirlo,
la preparazione, l’energia e la disponibilità di Stefano, boss della
Scommessa, che in un attimo prende in pugno la situazione e ci regala
serenità. Incognita risolta.
Se cambia il tecnico, cambia anche il furgone. Ci siamo mossi un po’ in
ritardo con il noleggio, e a disposizione ci resta un passo lungo che, a
dispetto del nome, offre una importante percentuale di possibilità di
carico in meno. Alla vista del furgone sembrerebbe impossibile sistemare
tutto il necessario in uno spazio che sembra così angusto. Ma… basta un
poco di zucchero… e con studiata organizzazione di spazio e modi, ci
troviamo increduli, con spazio in sovrappiù, rendendo sin vano il
sacrifico dei due pannelli rimasti a terra. Incognita risolta.
E poi il tempo. Quello atmosferico. Da questa mattina un cielo gonfio a
perdita d’occhio sembra voler scaricare tutto l’inizio d’autunno sul
nostro spettacolo. Piove. E tanto anche. Ma smette ogni volta che carico
e scarico devono dare seguito allo spettacolo. Graziati. L’unica acqua
che prendiamo sarà nel breve tratto da pizza a palcoscenico. Ma ci sta.
Incognita risolta.
Infine il tempo. Quello a disposizione per caricare, andare, scaricare,
montare, provare, mangiare e finalmente andare in scena. La meta non è
lontana ed il palco noto, ma siamo costretti a partire oltre le
previsioni per impegni di tecnici ed attori su altri palchi. Ma tutto si
incastra alla perfezione. Il traffico scorre. La squadra lavora bene e
abbiamo tempo da dedicare a chiacchera e cazzeggio prima della sosta
ristoro. Incognita risolta.
Tutto si mette quindi al meglio nella replica di Milano, dal Baffo, dove
riproponiamo quei Chirurghi che lo scorso anno, le pieghe della vita, ci
hanno costretto a sostituire con la Scommessa.
E piacevole è la pausa che ci prendiamo, deposti gli attrezzi,
aspettando il fonico di sala, per gli ultimi check tecnici, che si
limiteranno ad una prova di volumi e potenza di luce per scoprire che
tutto è già tarato per il nostro miglior uso e consumo.
Al San Giorgio, dove sacrifichiamo il trancio del vicino Bonola - che ci
ha nutrito nelle precedenti venute - con una pizza tradizionale
consigliata e convenzionata dal Baffo, ci buttiamo senza fretta su una
pizza gustosa in mille varianti e una arrabbiata degna di nota,
anticipate da una gradita bruschetta che inganna alito e attesa. Il
servizio lascia un po’ a desiderare per lingua, velocità ed
organizzazione ma, anche se non arriva la piantina di basilico sulla
pizza di Leslino, si può soprassedere.
Sotto una pioggia battente, torniamo ai nostri camerini, una volta tanto
ampi e spaziosi, e passeggiamo a sgranchire l’attesa, nei corridoi che
tanto ricordano, per luci e colori, quelli di un vero ospedale,
accelerando la metamorfosi. Che deve decantare, sul rumoroso
palcoscenico, ad assorbire un ritardo che, al quarto d’ora accademico
deve aggiungere il puntiglioso intervento del baffo, incollato al
microfono, che introduce spettacolo e stagione.
Sull’ultimo dittongo del padrone di casa, parte la musica, e la luce
invade il palcoscenico dando voce ad uno spettacolo che ritrova fluidità
e smussa gli spigoli del debutto stagionale, a discapito di nomi, cose,
colori e animali che si ritrovano improvvisamente frullati in un casuale
abbinamento di sostantivi ed aggettivi che potrebbero compromettere
l’attenzione del pubblico. Eroe della serata il dottor Mortimere, che si
aggiudicherà il premio ‘Parole in libertà’.
Raccogliamo gli applausi che distribuiamo a regia - presente - e tecnico
- perfetto - e subiamo, per aggiungere ritardo a ritardo, un’estrazione
di 3 bottiglie che aggiunge un atto allo spettacolo.
Un saluto ad amici inaspettati che scorgiamo in sala al riaccendersi
delle luci e, dribblando le ragioni del si e del no di un referendum
ancora pieno di ombre, corriamo contro il tempo a smontare e viaggiare a
ritroso contro il tempo per non mancare alla birra che chiuderà serata e
fatiche.
Ma l’ora è tarda e il Sayonara non aspetta. Consumiamo così il rito in
piedi, con le birre sopravvissute alla fragile borsa, tra rutti gentili
e risate.
Resta l’ultima incognita, di pubblico e giuria. Che decreteranno, a fine
mese, i vincitori della rassegna. Ma questa incognita non possiamo
risolverla.
Brugherio
- 29 ottobre 2016
Tempo di
ripartenza anche per “I Chirurghi”, e per evitare un inizio troppo brusco
si parte da uno sputo da casa, Brugherio, che fa altra provincia ma un
solo ponte ci separa.
Neanche il tempo di scaldare i motori e provare a fare due chiacchiere
in auto che siamo a destinazione.
Ad attenderci un auditorium comunale di rara bellezza che ci sorprende
per arredo e infrastruttura tecnica. Di nome auditorium, teatro di
fatto.
Si va in scena per l’associazione “La lampada di Aladino”, che ha
sostenuto la nostra infermiera Tate nel travaglio dell’ultimo anno e ora
tocca a noi, con piacere, ricambiare.
Al palcoscenico non manca nulla se non qualche metro in più, siamo così
costretti a imbastire una scenografia inedita, un rettifilo di
finestre-porta-pannelli che ci dà qualche filo da torcere quando
dobbiamo garantire stabilità e resistenza al tutto. Ma esperienza
insegna e le difficoltà sono limiti che superiamo agilmente divorando
tutto il tempo a nostra disposizione.
Salutiamo il tecnico ombra di sala, muto e senza intraprendenza ma
sempre presente, per volare allo Stregone, che vanta la fama di miglior
pizza di Brugherio, confermata dai fatti. Tecnico e promessa consorte,
messosi in pari con Dio, pensano ora allo stomaco e ci raggiungono
quando il nostro boccone è già per via.
Si torna in teatro con il primo pubblico che fa capolino in sala. Ci
rinchiudiamo nei lunghi e stretti camerini, soffocanti ma completi di
ogni sevizio, dove, oltre che con il poco spazio, dobbiamo fare i conti
con un ricordo diversamente profumato di un donatore anonimo.
Due parole da parte del presidente dell’associazione per dare un senso
alla serata, e si parte.
Lo spettacolo, nonostante la forzata pausa estiva, non ha perso di
smalto e ritmo, ma a tratti suona spigoloso, arrugginito e meno fluido
di come dovrebbe scorrere. Sostituisce inedite battute a quelle previste
dal copione offrendo, almeno a chi ha già visto più volte lo spettacolo,
un testo nuovo nella forma se non nella sostanza e imponendo agli attori
in scena il brivido dell’ignoto.
L’apertura di una inchiesta sulla caposala Flint chiude la serie degli
inediti anticipando di un soffio la chiusura del sipario ed il lungo
applauso di un pubblico caloroso e generoso che sin da subito riempie il
teatro di risate sonore e divertite, che a malincuore interrompiamo per
il doveroso ringraziamento a regia, assente, e tecnico presente, ormai
abituato all’annunciata promessa ufficiale di nozze.
Un pensiero commosso dell’infermiera Tate che racconta il suo percorso
iniziato un anno fa che le ha permesso di sconfiggere la malattia e
continuare a vivere, serena, meglio di prima.
La serata volge pigramente al termine. Ma il tecnico ha tramato, e per
una volta veste i panni di una regia tanto gogliardica quanto
stupefacente. Con la complicità degli attori e con la scusa di
improvvisarsi fotografa, la vera moglie di Mortimere viene chiamata sul
palco (mai si sarebbe piegata altrimenti alle luci della ribalta).
Una zanzariera si trasforma in un credibile velo da sposa. E le copre il
capo.
Due gerbere di plastica diventano il necessario bouquet. E se lo ritrova
in mano.
Il prete c’è, è di scena.
Un coloratissimo anello porta smalto diventa la fede della promessa. E
Mortimere, più sorpreso che cosciente, lo infila al dito della sposa.
I testimoni tutti gli attori sul palco.
E la marcia nuziale, che riempie ora la sala, fa da sottofondo alla
rinnovata promessa di matrimonio, segreta questa estate, ora presentata
al mondo, su un palco, luogo di finzione, che oggi consuma e ripropone
la realtà.
Non mancano i confetti, che faranno il giro di pubblico e sala. Ce n’é
per tutti.
Colpo di scena gradito ed inaspettato che ha tinto di rosa e risate
l’apertura di stagione della commedia.
Si scarica, in un silenzio ormai provetto, nel buio della notte. E solo
dopo il dovere gli sposi potranno offrire il piacere di confetti e birra
al Sayonara, sempre più abituale chiusa, con qualche grado di buon
umore, delle nostre repliche.
Cologno Monzese
- 13 maggio 2016
Canto del
cigno per una stagione che speriamo abbia anche la magia dell’araba
fenice per risplendere, risorta, dopo la pausa estiva.
Inizia tutta al maschile con la fatica di poche braccia per troppe
scene, in un venerdì indeciso tra sole e nuvole. Ad alleviare lo sforzo
arriva Meneaux, rubato alle lenzuola di altra commedia per fare la
differenza anche dietro le quinte. Al teatro, dietro l’angolo,
arriveranno sparsi, per tempo, tutti gli altri. O quasi.
Il teatro è un cantiere, dentro e fuori le mura. Si salvano le
poltroncine e il foyer, che, come una pennellata di trucco, accolgono lo
spettatore in ambiente smentito poi da palco provvisorio e camerini
tanto nuovi da non essere ancora agibili.
Il vizio, che ha contagiato anche gli edifici vicini, ci costringe a
spostare un cantiere per permettere al furgone di arrivare ad umane
distanze dal palcoscenico, che forse per esercizio di stile, assomiglia
più ad un ponteggio.
Ma tutto è facile, e svelato il piacere dell’obliquità che la nostra
Jane Tate cela al mondo, pezzo dopo pezzo si compongono scena luci e
suoni, facendoci apprezzare il lato positivo della struttura. E poco
importa se non ci sono neppure le tracce di un sipario o se
l’accoglienza del tecnico locale può essere definitiva eufemisticamente
‘burbera’.
E mentre diamo voce ad un articolo che vede protagonista la doppia vita
di Mike e scegliamo a fatica una pizzeria in una landa più dedita al
riposo che ai piaceri della tavola, chi dall’ufficio chi dall’ospedale
(quello vero) il gruppo si ricompatta tutto. O quasi.
Per sentirci a casa, e perché senza vera alternativa, ci affidiamo alla
pizzeria Ginestrino, uno strano locale tra appartamento e sottoscala
illuminato dalla gentilezza e disponibilità dei gestori.
Tiene banco una sconsolata Rosemary Mortimere che in un sol colpo si
scopre suocera e, caramba che sorpresa, con consuoceri in sala, servendo
un piatto ai commensali che il prepartita riempie di facili riferimenti
che rendono indigesto un boccone che poteva essere solo amaro.
La caposala Flint stupisce tutti stabilendo un nuovo record nella scelta
della pizza e lasciando il suo spirito libero di possedere una Jane Tate
che, tra storie di ordinaria molestia salvate da una doccia liberatoria,
fa e disfa pizze togliendo e aggiungendo ingredienti in libertà, senza
intaccare una pizza non eccelsa ma degna di menzione.
Si torna al cantiere e ognuno prende il proprio posto. Tecnico in
balconata per una regia con il brivido della vertigine. Attori tra le
polveri di uno spogliatoio con più docce che panche. E pubblico che
pigramente prende posto in sala, ignaro dello squallido retro palco. Tra
loro molti amici che la poca distanza ha costretto al seguito.
E si va in scena con una marcia in più, sostenuti da un pubblico che
rumoreggia divertito sin dalle prime battute sostenendo vigoroso
personaggi caratterizzati al punto da rendere pericolosamente
incontenibile la risata del pubblico oltre la quarta parete. Ci siamo
divertiti. Entrando, personaggi ed attori, in uno spettacolo allestito
forse più per noi che per il pubblico.
Gli applausi finali si sfumano di commozione per sottolineare le rose
che Silvia riceve sul palco. Lei sa perché.
Un rosè della vicina Franciacorta annaffia il compleanno di chi, attrice
nella scommessa, oggi ha fatto da spettatrice per festeggiare con noi un
calendario da oggi un po’ più pesante. Rallegrando con un po’ di vita la
tristezza dello spogliatoio mentre il nostro tecnico, avido di sonno,
smontava la scenografia e montava di rabbia giustificata da una
disponibilità che non è mai venuta meno.
Una bella serata di fine stagione, in somma, dai colori caldi e accesi
che mitigano la tristezza di una saracinesca che si chiude su un’estate
libera di impegni e rende, almeno per ora, meno sofferta l’attesa che
tutto riparta.
Cairate
- 5 marzo 2016
Giornata più
indicata per programmare la costruzione dell’arca che una trasferta
teatrale. Dal cielo secchiate come non ci fosse un domani e in
preventivo abbiamo messo k-way e tanta tanta tanta acqua.
Scopriamo poi che le brevi tregue degli scrosci sono state programmate
contemporaneamente ai nostri orari di carico e scarico scenografia,
riducendo così l’umidità al minimo sindacale.
Ci aiuta anche l’accesso al palcoscenico del bel teatro di Cairate che
per la prima volta darà alla luce un nostro lavoro e che ci accoglie,
dopo aver scorrazzato per il parco della casa del curato, attraverso una
breve scala scivolosa di pioggia ma comoda e breve.
E accogliente è anche la compagnia Kayros, che gestisce lo spazio,
esperta di musical e squisita disponibilità, che subito ci fanno sentire
a casa.
Si monta agevolmente, a ritmi serrati ma non febbrili, con un tecnico in
grande spolvero, quasi voglia recuperare nelle poche repliche che
quest’anno ci ha dedicato, tutte le sferzanti battute che normalmente
diluisce nel tempo.
Sparpagliamo le nostre cose negli accoglienti camerini lasciando il
tepore del camerino più intimo alle signore, tanto si cade comunque in
piedi.
Qualche foto con il teschio di scena, a cui diamo nuova vita e vitalità
e siamo pronti per la cena, che riusciamo ad anticipare di qualcosa
rispetto alla normale tabellina di marcia. Destinazione il modesto Bar
Ristorante RIO che raggiungiamo con macchine che parcheggiamo a fatica.
L’atmosfera è informale e famigliare. Le pizze servite con il contagocce
bruciano in un attimo il tempo rubato al montaggio. La pasta, fuori menù
e cucinata a comando… da evitare. A rendere indimenticabile il momento,
però, ci pensa il consueto siparietto della caposala Flint che dopo aver
interrogato il cameriere su tutte le possibili combinazioni di
ingredienti ripiega sulla solita sempiterna rucola e olive nere che il
cameriere scolpisce sfinito sulla pietra della comanda. E mentre il
tecnico viene tenuto in ostaggio in bagno, tre eroi si azzardano ad
ordinare il disco volante : due pizze una sull’altra con in mezzo…
ingredienti a piacere. Tacciamo per rispetto il nome degli ingordi che
porteranno a termine, indomi, l’impresa.
Acceleriamo sul caffè, alla rucola e olive nere per la nostra Flint come
doverosa rivincita del cameriere, scoprendo da una locandina affissa nel
locale i nostri volti e l’orario di inizio : 20.45 che incombono
minacciose sul tempo che resta prima di andare in scena.
C’è giusto il tempo di prepararsi mentre il nostro tecnico scandisce il
passare veloce di ogni minuto, felice di anticipare l’inizio e quindi…
la fine.
Ci tuffiamo negli abiti di scena mentre la sala aggiunge alla prevendita
qualche avventore in più.
Un saluto a Don Basilio che interrompe il riscaldamento vocale con i
progetti passati e futuri della sala e che fatica ad andarsene…. e siamo
in scena.
E mentre il regista veste i panni dell’autore per un gemellaggio per
caso in quel di Firenze offriamo al caloroso pubblico che subito entra
nei meccanismi del testo, uno spettacolo quasi perfetto, per ritmo,
tenuta e intenzioni. Da annoverare forse una piccola indecisione, quasi
anche a noi sfuggita e che quindi preferiamo tacere.
Sugli applausi, il nostro tecnico oggi onnipresente, rinnova la promessa
di matrimonio strappando controvoglia un personalissimo applauso, che in
fondo gradisce.
E salutiamo Cairate, respirando attenzioni ed ospitalità anche due fari
improvvisati che illuminano e agevolano la rimessa della scenografia. Ed
abbiamo già voglia di tornare su questo palco.
Brescia, Teatro Pavoni
- 23 gennaio 2016
Freddo il
sole e freddi i colori che ci accompagnano nell’inedita trasferta di
Brescia, ad interrompere un digiuno di oltre 10 mesi di questo
spettacolo, forzato dalla malattia di Jane che oggi proviamo a buttarci
alle spalle, vero successo della giornata. Il resto sono dettagli.
A preparare il debutto solo due mezze prove che dovrebbero colmare il
silenzio di mesi. Ma non c’è tensione. Su tutto vince il buonumore del
“comunque vada è già un successo”.
Qualche incertezza e qualche attenzione in più nel riempire un camion
che, a lavoro finito, scopriamo meglio arredato di altre volte. Poi
un’ora di chiacchiere, in macchina, per arrivare senza intoppi a ridosso
del centro città, Teatro Pavoni, anticipando di un soffio anche chi
dovrebbe aprirci ed accoglierci.
Il piacevole tepore che ci avvolge all’apertura delle porte ci fa
digerire anche le ripide ma tutto sommato comode scale che ci portano,
scendendo, ai piedi del palco e mettiamo in moto quella macchina di
organizzazione e ritmo cadenzato che questa scenografia non impone ma
apprezza. Fino a rasentare la follia nel maniacale allineamento di viti
e farfalle in una disposizione più da sala operatoria che da catena di
montaggio.
Percorriamo i sali scendi di un teatro che ha solo falsi piani, fino al
compimento dell’opera.
Abbiamo il tempo di incollare qualche pannello che l’inedia ha usurato,
scattare qualche sequenza di un gruppo finalmente al gran completo anche
nell’abbigliamento e riuscire a giocare d’anticipo sulla cena, per
guadagnare quel quarto d’ora che l’organizzazione ha deciso di rubare al
canonico fischio d’inizio.
7 minuti ci separano dalla nostra cena, che percorriamo compatti ed in
perfetta media, guidati dal gps. Ad accoglierci alla Pizzeria
Amalfitana, al momento tutta per noi, Antonio e l’innominata moglie, nei
cui gesti leggiamo le abitudini ormai stanche di una vita spesa tra i
tavoli. Il servizio è veloce. La qualità non merita menzione, complice
forse il fatto che il nostro arrivo ha rubato 10 minuti alla
lievitazione. Di questa cena passera alla storia il forzato outing del
nostro tecnico che imbarazzato ufficializza sotto tortura l’ingresso
nella sua vita di Monica. E dopo aver pagato un onesto conto sfornato
dopo un’eternità di somme e moltiplicazioni siamo pronti per ridare
fiato alle trombe di questo spettacolo.
Trucco. Parrucco. Abiti. San Genesio. Pronti. Via.
Una serie infinita di marchette del presentatore ci fanno scalpitare per
un buon quarto d’ora dietro il drappo rosso, con un incontenibile Leslie
che non ne vuol sapere di essere recluso per buona parte del primo atto
nel buio delle quinte. E finalmente un rumoroso cigolio si unisco,
strumento aggiunto, alla sigla di apertura dello spettacolo.
La sala è quasi piena. Lo percepiamo, anche se non ne vediamo la coda.
Ne sentiamo il peso che ogni tanto si gonfia nel brusio divertito che
accompagna le prime battute, senza però mai esplodere davvero se non
verso la fine del primo atto, quando anche il pubblico cittadino, più
restio all’abbandono dei sensi, si lascia rapire dal divertimento in un
crescendo che colma l’iniziale timidezza. Per sfogarsi in un applauso
lungo e pieno che non vuole smettere e che si fronzola di fischi ed urla
quando sul palco appare una caposala Flint che con poche battute ma
sempre ben dosate, riesce a calamitare l’attenzione e la simpatia del
pubblico. Senza nulla togliere ad altri, menzione particolare per il
professor Willoughby, che sfodera sul palcoscenico una presenza come
mai.
Dall’interno doveroso annoverare una supposta ed un dottore mancati che
hanno tolto ritmo e freschezza ad una messa in scena che ha comunque
dimostrato di essere meno arrugginita di quel che poteva sembrare e che
ha oliato e in alcuni casi rinnovato i meccanismi di uno spettacolo
rodato.
Rubiamo il tempo agli applausi finali per presentare anche al grande
pubblico il nuovo stato civile del nostro tecnico e i problemi
gastrointestinali che hanno costretto a casa la regia.
E poi a ritroso i scendi sali del teatro per riportare a casa stanchezza
e scenografia.
I fogli di sala segregati su un tavolino all’ingresso non ci consentono
di raccogliere commenti scritti, ma ci accontentiamo del calore che
accompagna la chiusura del sipario, che facciamo valere più di molte
parole.
Oggi in scena c’era una parrucca in più, ma nessuno se n’è accorto. Ed è
questo quello che conta davvero.
E passa in secondo piano anche un salto di carreggiata che archiviamo
ridendo accecati dai fari della ragione, misurando solo dopo il pericolo
corso.
Limbiate
- 18 aprile 2015
“Quanto
tempo era che non ci portavi in un teatro così?”
Oggi ritrovo direttamente a destinazione. Il camion, apparecchiato da
ieri, non ha bisogno di manutenzione. E quando si spalancano le porte
del Comunale di Limbiate queste sono le parole del nostro tecnico che,
solitamente parco di lusinghe, scivolano senza drena da pensiero a voce.
Un bell’anfiteatro comodo ed accogliente di 600 posti che sappiamo non
riempiremo ma che ci fa sentire oggi meno amatori. E comodo ed
accogliente è anche l’ampio pianeggiante palcoscenico, che raggiungiamo
direttamente dal piano del camion. Minimo sforzo e massimo risultato, e
senza fatica ed intoppi, a mediare quella del giorno prima, trasformiamo
il comunale nel più sanitario ospedale.
Merito e plauso anche al tecnico del teatro, che, spirito italiano e
capelli giamaicani, impersona un raro caso di perfetto connubio di opere
e parole.
Pigramente aspettiamo il nostro tecnico che, tornato in terra da altezze
non sue, esauriti puntamenti e complimenti, si concede un doppio passo
con una compagna di danze provvidenzialmente in zona. E improbabili
spettatori in attesa di essere catapultati sulla scena, ci accomodiamo
in prima fila a provare a ricordare, senza riuscirci, improbabili film
con attricette inutili.
Corsa alla pizzeria Belvedere, nella vicina Senago, mentre il sole
lascia intimidito il posto a nuvole nere che sembrano minacciare la fine
dei tempi, supplementari compresi. Ma qui “…per una serie di correnti,
non piove mai…”, commenta un indigeno a cui, messo da parte lo scherno
istintivo ed iniziale, dovremo a fine giornata riconoscere la ragione.
Alla pizza al trancio del Belvedere, eccezionale per velocità di
preparazione, misurata simpatia del personale, gusto e leggerezza,
perdoniamo l’attesa che, trovando le serrande ancora abbassate, ci
impone al freddo di mulinelli d’aria che fanno volare foglie e fiori
colorando un’aria che così profuma meno di apocalisse.
Affidiamo il sipario all’italo-giamaicano, forse parente stretto della
Mema di Torino che trova subito gli ascendenti giusti con il nostro
tecnico, e senza quasi accorgerci siamo in scena, lustrati a dovere,
prima che trovi posto dietro al mixer, dall’ormai esperto visagista
delle dive.
Siamo in scena concentrati, senza la stanchezza delle attività
preparatorie che oggi abbiamo potuto limitare all’essenza, freschi della
messa in scena del giorno prima e respirando l’atmosfera di un palco
che, forse sopravvalutandolo, sentiamo importante. Mettiamo in scena uno
spettacolo PERFETTO. Ogni altra definizione, descrizione, tentativo di
particolareggiare rischierebbe di togliere merito a quanto
rappresentato.
Il pubblico ha seguito attento. Alla sveglia si è destato e ci ha
regalato risate ed applausi in luoghi tanto insperati da coglierci
impreparati e sorpresi, preferendoci, commenti rubati tra le poltrone
della platea, a spettacoli di più alto lignaggio, almeno per fama ed
ingaggi, che ci hanno preceduto nella stagione che noi abbiamo chiuso.
Unico vizio l’assenza del regista che si è perso, preferendo i
ricciarelli, una soddisfazione che sbiadirà più lentamente di altre.
La torta che tagliamo nei camerini per festeggiare l’ennesima luna del
dottor Connolly, provocatoriamente agli amaretti, non scalfisce il dolce
sapore della bella prova.
Segrate
- 17 aprile 2015
Venerdì 17,
preambolo che speriamo il nome dell’agenzia che ha acquistato il nostro
spettacolo - Melarido – possa almeno in parte smorzare.
Giusto per iniziare, come data vuole, piove, pesante e bagnato. Ma
forse, per farsi perdonare dell’acqua ancora non del tutto evaporata che
ha inaugurato la stagione, si versa al bello, o al meno all’asciutto,
giusto in zona carico.
E’ da tanto che non si porta in scena questo lavoro. Via dunque la
polvere di mesi e ridiamo aria alla scenografia rattrappita da troppo
tempo a poltrire. Solo quattro mani all’attivo ma con l’energia della
chiacchiera e del buonumore arrediamo più che caricare il camion. Tutto
trova posto in modo quasi elegante e i rinforzi dell’ultima ora ci
permettono di finire il lavoro con pezzi più pesanti e ingombranti.
In un attimo siamo alla vicina destinazione che ha già ospitato questo
spettacolo non molto tempo fa ma che hanno voluto, pubblico e
organizzazione diversi, riproporre.
Sulla via del palco, tortuosa ma agevole, smantelliamo un bivacco e
dribbliamo del cibo rispedito al mittente, e con misurata fatica, sotto
sguardi e braccia conserte delle nostre donne al balcone, imposti a
terra i pannelli più grandi che non possono trovare posto su un
palcoscenico troppo piccolo, ricostruiamo la stessa scena di due anni
prima ricalcandola da una foto dell’epoca.
I pannelli prendono posto tra collaudati doppi sensi, cantanti messi a
dura prova da mani esperte e vibranti palle salterine, per lasciare
finalmente spazio ad una più pacata cena al sacco dove si annientano
pietre miliari del musical e si ipotizzano scommesse estive con parti di
suocere in svendita alla miglior offerente.
Il caffè, discutibile quello al ginseng, è offerto in belle tazze che
almeno ne esaltano l’aspetto.
Prima di tornare sulla scena, questa volta per rimanerci, un gatto per
dimensioni più vicino al maiale ci prova con tutti, parenti e non.
Non ci aspettiamo molta gente, l’organizzazione è scettica e prova a
tirare anche sul nostro compenso. Lo stupore risolve ogni dubbio quando
scopriamo che, a ridosso del gong, la gente si riversa numerosa in sala,
al di sopra delle prime funeree prospettive dettate dai pochi prenotati.
Affidiamo il sipario al sergente e siamo in scena.
La stanchezza della settimana e la forzata astinenza di mesi ci fanno
qualche sgambetto inventando divieti di ingresso a destra, gestazioni
quadriennali, cartelle cliniche che partono piene e arrivano vuote e
nomi dei protagonisti sparati ad ala di moscerino (volendo citare il
Lunari). Ma il pubblico, timido, è attento, e puntuale si sveglia
rumoroso al solito punto della commedia quando, superati i preamboli la
storia scivola nella sua comicità più intensa, e da lì non ci lascerà
più fino all’ultima chiusura di sipario.
Si smonta stanchi e provati da una commedia di cui non ricordavamo
lunghezza e impegno fisico. Ma felici di averla ritrovata ancora viva e
fresca e di averla riproposta, come spesso accade dopo lunghe pause, con
sfumature ed intenzioni nuove, forse più curate e sicuramente più
naturali e meno meccaniche.
E mentre i piedi delle donzelle, nessuno escluso, urlano di insana
pianta fino al delirio di imporre un nuovo e vibrante nome al gruppo, si
pensa al bis di domani : stessa agenzia, altro teatro.
Castellanza
- 22 novembre 2014
Trasferta
dal sapore casalingo. Perché abbiamo già calcato più volte questo
palcoscenico. E perché qui ha messo radici, d’arte e di vita, il dottor
Mortimere.
Castellanza. Teatro di via Dante. Spazio che non sappiamo se abbia
imposto o subito il nome della via. Incuranti dell’etimologia del luogo,
apprezzando la temperatura mite all’esterno e africana all’interno,
dividiamo le nostre energie tra l’arredamento del palcoscenico e la
preoccupazione per i desaparecidos Leslie e caposala Flint, che
immaginiamo in una artistica fuga d’amore ravvivata da confetti al
Letargil.
Scoperto solo tecnico, e non romantico, il ritardo della coppia mai
nata, bloccata da un incidente per fortuna di terzi, i problemi maggiori
ce li impone la scenografia, dove trova applicazione la nuova teoria
spazio-temporale : “Palco stretto ma profondo è fonte di incolmabili
buchi neri”. Qui tutti gli attori saranno inghiottiti e ammassati dietro
la parete di fondo dove lo spazio risulterà troppo compresso.
Saniamo alla meglio un cono d’ombra proprio nel centro della scena e
prima dello scoccar dell’ora di cena siamo già al trotto verso “Il
tagliere del re”, che molti consigliano essere un ottimo posto per
cenare. Il locale è vuoto, anche perché ancora chiuso. Ma le
prenotazioni lo riempiono, almeno sulla carta, e nonostante le nostre
promesse di una cena da record dell’ora, non riusciamo ad andare oltre
un gentile ma deciso rifiuto. Piano B. Il trotto muta in galoppo,
maggiore è la distanza, e puntiamo verso la più sofisticata “Locanda
Settembrini”, che ci accoglie con sostenuta disponibilità ad un tavolo
destinato ad altri che la nostra fretta, promesso, consegnerà per tempo
ai legittimi proprietari. La comanda trasforma la sostenuta
disponibilità in malcelata impazienza che domiamo con garbata fermezza
vincendo un duello che mette al giusto posto, senza infierire, cliente e
cameriere. Allo sconfitto l’onore delle armi : pizza e cucina, per chi
ha ceduto all’odor di fungo che riempiva il locale, sono stati
decisamente all’altezza.
Senza troppe chiacchiere guadagniamo i sotterranei del teatro ed
entriamo nei panni dei nostri personaggi.
La sala si anima a fatica con un aspettato colpo di coda prima
dell’apertura del sipario che ci regalerà, al termine dello spettacolo,
un discreto colpo d’occhio, al di sopra della media aspettativa (parole
dell’organizzazione). E tra sipario e colpo d’occhio finale… il nostro
spettacolo. Perfetto per ritmo e tempi scenici. “Forse il migliore” ha
osato il regista nascosto tra il pubblico. Meno rigoroso il rispetto del
testo : “Parole in libertà” rende bene l’idea. Ma senza sconvolgere il
senso della frase e quindi senza colpo ferire all’ignaro spettatore che,
inedito, assisterà al travestimento delle caposala in guardaroba
(lavanderia momentaneamente out of order).
Il vero protagonista della serata, l’uomo in più, è stato però il
pubblico. Che ci ha sostenuto dall’inizio alla fine. Entrando sin da
subito nei meccanismi a volte assurdi del testo e sostenendoci con
sincere risate, applausi ed apprezzamenti che abbiamo subito trasformato
in energia e presenza scenica. E quando uno spettacolo prende questa
piega, alla fine, chi si è più divertito, sarà l’attore.
Alla chetichella riportiamo a casa scenografia e soddisfazioni. Che si
faranno compagnia per cinque mesi prima di rivedere la luce di una
prossima replica, già incisa a fine stagione.
Ora spazio a una nuova scommessa… LA SCOMMESSA.
San Donato Milanese
- 13 novembre 2014
Infrasettimanale. E con un palcoscenico da arredare nudo e crudo. Anche
di tecnica. Doppia fatica. Metà braccia e metà tempo a disposizione.
Partenza in salita. Dalla nostra il tempo, che ha deciso di squarciarsi
in un azzurro che stavamo dimenticando, e il rinforzo di un tecnico doc
che, oltre al ritmo, rinfranca spirito e speranze. Il buonumore latente
esplode quando Leslie, ancora, sempre lui, riesce a trasformare, senza
avvisare la proprietà, i nomi di tutti i teatri della provincia,
declinando tutti i metalli preziosi per arrivare infine allo “splendor”.
Si carica a tappe. Sale ordinata la scenografia. Sale sparpagliata la
tecnica. Che recuperiamo in teatro e che deve farsi largo a sbracciate
per trovare un posto nel troppo poco spazio lasciatogli.
Dribbliamo il traffico caotico di sera e tangenziale con un cielo che,
fatto il suo dovere, può spegnersi in un rosso fuoco striato di qualche
ricordo di nube. E arriviamo in 30 minuti netti tra le braccia amiche di
ASSIA, l’associazione che da oltre 40 anni assiste i diversamente abili
e a cui oggi offriamo lo spettacolo a sostegno della loro opera.
La gratitudine che ci rivolgono a priori prende forma di sorrisi,
chiacchiere e braccia messe a disposizione della causa. Gesti che
trasformano subito in amicizia una conoscenza finora solo virtuale.
Ci dividiamo in due squadre secondo competenza : una a montare la
scenografia, l’altra la tecnica. E a ritmo serrato trasformiamo una
landa desolata in una rigogliosa foresta teatrale fatta di luci suoni e
colori. Pronta per essere colonizzata.
Con l’arrivo degli ultimi attori che hanno bivaccato in autostrada
ostaggio di un intempestivo incidente, contro ogni più rosea previsione
riusciamo anche a permetterci un frugale pranzo a base di monotoni
tramezzini, che impiegano ore a percorrere il breve tragitto imposto
dall’esofago. E che proviamo a sturare con un caffè a due passi dal
teatro che sa di antico per modi, odori e arredi di un locale dove il
tempo sembra essersi fermato. Almeno a 40 anni fa.
Rientriamo in sala con il primo pubblico e con la strana sensazione che
tutto sia successo così in fretta da non avere ancora metabolizzato il
montaggio che subito si deve andare in scena. Lusso che solo gli
amatoriali si possono concedere.
Maschi e femmine si dividono i due micro camerini cercando di non
trasformare il cambio d’abito in una lotta greco romana con il
vicinissimo di sedia. Ma confortati da un brusio sempre più intenso e
pieno che ci racconta, oltre la quarta parete, il costante afflusso di
pubblico.
Trucco veloce, più per impegno preso che per necessità, e siamo pronti a
sorbirci il discorso introduttivo che dura oltre misura e che il nostro
tecnico, ancora immobilizzato e alla costante ricerca di ruoli
alternativi, improvvisandosi ora ministro delle finanze, decide di
tassare. A tempo.
E poi, pronti. Partenza. Via.
Siamo tutti stanchi ma lo spettacolo decolla bene. E tiene un ritmo che
dimentica fatica ed energie spese. Sorretto da un pubblico che, quasi lo
sapesse, non lesina risate e divertiti brusii. Incespichiamo qui e la.
Ma caduta e ripresa sono quasi impercettibili. Anche quando scatta un
odio viscerale per la moglie del protagonista senza il motivo
dimenticato dietro le quinte o quando si affibbia un sergente di polizia
al cugino sbagliato.
Alla fine siamo felici di aver divertito una sala quasi piena. E questo
è il successo maggiore : l’aver portato tanta gente a sostenere una
iniziativa così importante. Noi, in fondo, siamo stati solo il mezzo.
A tempo di record e a ritmi serrati facciamo fare a scene e tecnica il
percorso inverso. Troveranno dimora temporanea tra le mura amiche del
nostro teatro, quasi a ricaricarsi dopo tanto esilio in un anonimo box
di periferia. Almeno fino alla prossima replica.
Laveno Mombello
- 18 ottobre 2014
Archiviato
il disastro di pioggia e companatico della scorsa settimana, questa
replica inizia sotto il sole, caldo e asciutto, dei migliori auspici.
Seguiamo le precise indicazioni di viabilità e itinerario suggerite dai
lacustri e arriviamo veloci a destinazione. Quasi tutti. Il furgone,
spirito da esploratore, batte nuove piste confermando l’anima romantica
del moderno avventuriero turistico. E saranno gli unici ad avvistare il
placido azzurro del lago. Quando compare all’orizzonte, ci
scrolliamo di dosso il muschio che l’attesa ha concimato sul lato umido
della compagnia, e ci prepariamo a scoprire una scenografia che ha retto
bene le secchiate di sette giorni addietro. Pagheranno pegno solo i
pacchi di Natale, che, passati a miglior vita, riprenderanno nuova forma
e nuova veste per mano femminina, durate l’incedere costante e deciso
dei pannelli sulla scena.
L’acceso è quello comodo delle migliori tradizioni : da retro palco.
Solo una agevole ed ampia scalinata separa il camion dallo spettacolo,
cancellando anche questa parte dei recenti ricordi.
Le dimensioni del palco sono quelle ottimali per scena e messa in scena.
E al termine dei lavori rimiriamo un ambiente quasi reale, sicuramente
realistico. Solo un po’ troppo di destra. Veloce ritocco più logistico
che politico che ci costringe ad una revisione ferro-tecnica della porta
che lascia sul tappeto qualche vite. Ma il tempo c’è. Per smaltare
unghie, parare tre rigori, ballare con manichini senza testa, apprezzare
spazi e divani dietro le abbondanti quinte, gustarci il ridotto “Uno
sull’altalena”, e scoprire un gruppo ormai di amici, puntuale, attento e
molto attivo nell’organizzazione di eventi, tra cui svetta il palio
delle frazioni, combattuto a suon di teatro scandito dai sette minuti di
una artigianale e scenografica clessidra al miglio, qui destinato alla
misura del tempo e non dello spazio.
Arrivano le pizze che gli amici di Laveno hanno voluto offrirci intorno
ad un tavolo di proporzioni medioevali. Un enorme quadrato perfetto che
si è subito riempito di voci e morsi che hanno ridotto al lumicino un
continuo incedere di pizze fatte a pezzi prima di finire nel pozzo (per
alcuni senza fondo) della nostra fame. Ottima. Per sapore e croccantezza.
A detta di tutti.
E quando già il pensiero si fonde con l’aroma del caffè, ecco uscire
dalla cucina una serie infinita di semifreddi, eguagliando la velocità
di produzione della vicina azienda che ne sforna 700 al minuto.
Riusciamo a farne incetta come nemmeno Attila poté. Al caffè,
all’unanimità, facciamo entrare accoglienza e simpatia di Laveno nella
top ten dell’ospitalità misurata nelle nostre trasferte.
Sazi ma soprattutto appagati ci ricordiamo del nostro dovere. E iniziamo
la discesa verso lo spettacolo. Che inizia puntuale e che troviamo
impreziosito da un azzurro cielo che fari colorati posizionati ad hoc
dietro le scene, rendono cinematografico il quinto piano che appare
all’apertura delle tende della finestra.
Lo spettacolo è meno attento del debutto di stagione. Soprattutto nel
secondo atto luoghi e nomi si mischiano in scena, ma gli ingressi
saranno tutti presenti e puntuali all’appello. Ci divertiamo, e il
pubblico con noi. Accompagnandoci con risate, brusii e commenti
divertiti per tutto lo spettacolo. Senza soste. E i meritati applausi
vengono condivisi con tecnico, ancora relegato ad attività ludiche, con
il nostro regista, Angelo per una sera.
E’ quasi un piacere anche la rimessa in sicurezza sul camion della
scenografia. Non fa freddo e l’unica umidità è quella stagionale che
viene dal basso. E l’accento finale segnato dall’ultimo vassoio di paste
rende più leggera la stanchezza e suggella un sicuro arrivederci.
E come dicono Rosemary e Hubert : “Dio dà e Dio toglie”. Sette giorni fa
ha tolto. Oggi ha dato.
Rescaldina
- 11 ottobre 2014
Via la
polvere di una estate fredda e piovosa e la scenografia torna a vedere
la luce per la trasferta di Rescaldina che apre la nostra nuova stagione
teatrale. Arriviamo in perfetto orario, schivando nuvole gonfie di
pioggia che ci graziano e permettono di scaricare senza particolari
disagi, tutti concentrati (i disagi) nel secondo piano che ospita
l’auditorium subappaltato al nostro spettacolo e che ci costringe a
funamboliche gincane per portare tutta la scenografia sul modesto
palcoscenico. Le sue dimensioni ridotte limitano la fatica a pochi
pezzi, anche se i più ingombranti. Ma il clima è alto, leggero e i
consueti gesti, parcheggiati per una estate, tornano a vivere
accompagnati da incontrollato umorismo. Amplificato dal nostro tecnico
che un’ernia ha relegato a ruolo di ‘Mago Chirurgo’.
Con noi anche la fotocopia (più giovane, bella e tricologicamente
fornita) di Leslie.
Il palco si apparecchia veloce. Con calma superiamo le difficoltà di una
scena con rinnovati ingressi che, all’occorrenza, invertiamo. Ci
gustiamo, a bocca aperta, l’unico mirabolante inspiegabile misterioso
numero del nostro Mago Chirurgo che fa sparire l’esplosiva infermiera
Tate dietro i nuovi e colorati roll-up promozionali, altra novità di
questa nuova stagione.
Poi, in anticipo rispetto al solito, con una scorta di minuti in più, ci
dirigiamo verso la pizzeria per il pasto. Da dimenticare. E’ solo
facendo un immane sforzo di memoria che posso annoverare le pizze
farcite a caso con gli ingredienti rimasti in cucina (da quanto tempo?)
e che vengono spacciati per gli originali. Ed è così che tonni
spariscono e roastbeef si tramutano in bresaole, il tutto con un
impeccabile servizio ‘al lancio’ che neanche il caffè (sostantivo mai
così lontano all’originale), che ha rischiato di essere servito tra un
boccone di pizza e l’altro, ha saputo rimediare. Uscendo lasciamo il
locale vuoto, così come deserto lo avevamo trovato, senza stupore e con
la certezza che, nonostante il promozionale invito della gestione,
avremmo chirurgicamente rimosso dalle nostre esperienze. Per la cronaca
(e la quarantena) di nome fa “L’antico Faro”. L’indirizzo si vergogna e
non ha dato il consenso ad essere citato.
Consumiamo le ultime battute sul pasto rientrando in teatro.
Ci dividiamo negli angusti antri oscuri adibiti a camerino e siamo
pronti per il debutto, osservando una sala che si riempie pigramente,
orfana di numerosi comunicandi e affini. Alla simbolica apertura del
sipario il colpo d’occhio non è però male e dopo che l’organizzazione ha
attribuito a più riprese il prossimo spettacolo di Neil Simon a Ray Cooney (che ringrazia per i diritti acquisiti) suona il gong del nuovo
round.
Tutto scivola, riflesso in diretta dalla vetrata fronte palco, piacevole e veloce, cavalcando un ritmo cadenzato e senza
eccessi, dove ogni personaggio, complice forse la pausa estiva, è stato
messo in scena in modo meno ‘meccanico’ e con più attenzione alle
sfumature della caratterizzazione. Sul tabellino di gara finiranno un
ingresso di Bonney preso per i capelli, un sms echeggiato dai camerini
per tutta la scena e le molte, moltissime risate di un pubblico che ha dato
davvero tanto calore al nostro ritorno in scena.
Calore bruscamente annegato dalle secchiate d’acqua che un cielo ormai
al limite della continenza ha deciso di riversare a più riprese sulla
scenografia che troppo lentamente sale sul camion. Fradici, noi e
arredi, battezziamo il debutto con qualche incertezza sui danni
dell’acqua che solo a distanza di qualche giorno potremo valutare. Ma se
spettacolo bagnato è spettacolo fortunato, possiamo almeno vantare la
magra consolazione della speranza di fortune future.
Milano, Teatro
Nuovo
- 19 maggio 2014
Qualche ora.
Giusto il tempo per riprendere possesso delle nostre vite ed eccoci
nuovamente nei panni dei nostri personaggi. Per l’ultima apparizione
della stagione. Ad accoglierci quello che abbiamo sempre definito “il
prestigioso palcoscenico del Teatro Nuovo di Milano”, che ormai ben
conosciamo e che se brilla per cartellone e posizione, meno sfarzosi
sono arredi e ambienti, legati forse troppo alla Milano da bere di
qualche decennio fa.
Ritrovo al solito posto. Per caricare un furgone preso a nolo per il
solo tratto di andata. Ad attenderci la folla. Non di fans e ammiratori,
sicuramente di forma, ma di forza lavoro, decisamente di sostanza. Mezzo
CineTeatro Don Bosco si è mobilitato per l’evento e per rendere meno
gravoso il prima e il dopo spettacolo. Si carica il camion in un batter
d’occhio e al successivo tutta la scenografia è scaricata ai piedi del
Nuovo.
E mentre la Milano multietnica e multicolor cammina di fretta tra le vie
del centro più ad ostentare che a fare, in un batter di ciglia la
scenografia prende forma sul palcoscenico che abbiamo misurato tante
volte. E a ben vedere, verbo che rimbalza a fagiolo, le ciglia potevano
anche fare a meno di riaprirsi visto che buona parte del montaggio viene
fatta in braille : apriamo l’edizione 2014 del Festival del Teatro
Amatoriale e con noi, sul palcoscenico, uno stuolo di operai a montare
la tecnica che sarà a supporto di tutti gli spettacoli in cartellone.
Lasciandoci spesso la buio ma con il privilegio di portare a casa un
puntamento luci ad hoc.
E allo storico tecnico del gruppo, ora visagista delle dive, che arriva
a metà pomeriggio e trova scena e tecnica montata, non resta che fare
una veloce verifica del tutto, imposta più dal dovere del ruolo che non
dalla necessità. Paghiamo l’errore con il lento e costante ritmato
richiamo alla cena da parte del neo disoccupato, che cerchiamo di
coprire con corsi di mazurka francese e, per i più latini, di zumba,
senza tralasciare momenti di relax con lo stretching già collaudato a
Busto Arsizio.
I meno attivi allenano l’indice scattando un infinito numero di foto
mentre prendiamo possesso dei nostri camerini con il pudore dell’amatore
di non concederci il lusso di un locale a testa.
Con dieci minuti di anticipo apriamo il self service del centro che
ospiterà la nostra cena. Diamo l’idea di un gruppo vacanze con guida
turistica al seguito che, accollandosi il costo complessivo del pasto e
rinforzando l’apparenza gitaiola, si vedrà offerta la cena dal
ristoratore quasi a conforto della dura gestione organizzativa (questo
almeno il concetto che urlano gli occhi del cassiere alle parole “no,
no… il suo è offerto!”)
Torniamo in teatro spinti da un aria che si è fatta più frizzante. Siamo
accolti da mamma Rai, nella versione Gulp, che, accordi rimossi e ora
riemersi, registrerà un simpatico dietro le quinte e qualche minuto
dello spettacolo, per presentare sui canali nazionali il teatro ai
ragazzi più piccoli. A turno, un po’ imbarazzati ma divertiti, sotto i
riflettori di una telecamera inusuali per un teatrante, raccontiamo
dello spettacolo e della nostra esperienza attorale. E anche il nostro
visagista delle dive, famoso per essere allergico agli obbiettivi, si
concede ai riflettori entrando di diritto negli archivi RAI come
truccatore. E se lo dice la TV allora deve essere vero!
Salutiamo simpaticamente in diretta le telecamere e in differita il
pubblico che ci vedrà sul piccolo schermo. E senza troppi preamboli
siamo in scena, di fronte a un pubblico non troppo numeroso, ma che
immaginavamo ancora più sparuto, con gli ultimi ritardatari che ancora
stanno prendendo posto.
Un pubblico a bassa densità abitativa, rapportato ai metri quadri della
sala, ma ad alto contenuto energetico che segna un nuovo record per
questo nostro spettacolo di risate ed interruzioni da applauso che non
possono, per frequenza e momento, essere stati tutti suggeriti dalla
famigliare claque imposta dall’evento.
Lo spettacolo parte con un incespicata iniziale del protagonista che non
cade e si rialza mitigando il salto di riga nell’unica frase che deve
leggere con la difficoltà della preparazione del discorso ospedaliero
che il personaggio, per natura, dovrebbe avere. E prosegue con cadenzato
passo e ritmo da maratoneta, portando al traguardo una più che dignitosa
messa in scena, che è riuscita a vincere anche la maggior tensione dei
debuttanti Rosemary e Sergente, a cui questa replica è stata dedicata.
Caloroso saluto nel foyer alla parte di pubblico legata per amicizia o
sangue agli attori dove, agli apprezzamenti di parte si aggiungono
quelli dell’organizzazione. In cuor nostro speriamo anche quelli della
giuria che, per deontologia, devono restare segreti.
La dea Kalì che ha allietato trasporto e montaggio, rende quasi
piacevole anche la fase inversa e la scenografia emerge senza
compensazione in superficie.
Quando anche il penultimo accessorio è sul camion (l’ultimo resterà nei
camerini e sarà trasportato in altro modo) tiriamo il fiato e godiamo
dell’adrenalina che ancora galoppa festeggiando degnamente Sergente,
quello oggi a riposo, e Hubert, nel suo bis di tirata d’orecchi.
Con questo spettacolo si chiude il sipario della nostra stagione. Ma
restano ancora due code.
Una televisiva : venerdì 30 maggio alle ore 13.45, con replica il giorno
dopo alle 16.45, su RaiGulp, dove sarà trasmesso il servizio sul nostro
spettacolo all’interno del programma “Gulp Cinema e Teatro”.
E una teatrale, quando il 15 giugno scatterà la premiazione di questo
Festival.
Ma poi saremo davvero in vacanza?
Busto Arsizio, Teatro
S.Anna
- 17 maggio 2014
Si volge
alla fine della stagione. La nostra stagione. Penultimo spettacolo
quello di oggi, in un defilato teatro della periferia di Busto Arsizio
che ha già ospitato il nostro RUMORS due stagioni fa.
Lo spirito è quello di una prova generale più che di uno spettacolo
davanti al pubblico pagante, in vista del debutto al Festival del Teatro
amatoriale al Nuovo di Milano ormai dietro il prossimo angolo. E il
pensiero e le parole sono già al capoluogo mentre velocemente svuotiamo
il camion e riempiamo il palcoscenico agevolati da breve rampa di scale
che, rettifilo, ci porta dritto dritto sulle assi del palcoscenico.
Fuori il sole. Con il suo luminoso, avvolgente, profumato e morbido
caldo abbraccio.
Dentro il buio. Con la sua tetra, pungente, odorosa e spigolosa umida
morsa.
Ma vaccinati al San Domingo, quasi non ne sentiamo i sintomi e luci ed
ombre si mischiano in un veloce sali e scendi di uomini e pannelli.
Intermezzo clerical-ludico con il parroco del luogo che riconosce nel
nostro spettacolo un testo già andato in scena su questo palco la scorsa
stagione, e suona come beffa e complimento insieme, e a cui chiediamo il
laico piacere di soprassedere al solito sermone della prefestiva visto
che il nostro tecnico, che oltre ai palchi ama battezzare anche i
pulpiti del nostro tour, non può rallentare il tabellino di marcia per
il vezzo di una omelia che precederà, oltre alla divina ultima, anche la
nostra più umile e popolare cena. Per la cronaca la richiesta non sarà
esaudita senza comunque significative ripercussioni sul time table.
Mentre si monta, oltre alle mani, a muoversi freneticamente è anche la
bocca, festeggiando alla maniera adolescenziale con gommose sconsigliate
da qualsiasi dentista, il nostro Hubert che, superato il mezzo secolo,
non ne vuol sapere di ammettere e, diamone atto, mostrare la propria
età. Rimandando i festeggiamenti, quelli veri, a lunedì sera, quando
anche il sergente, cogiorneo ma non coanneo, vorrà dire la sua in fatto
di anni e anniversari.
Tutto è pronto e quasi increduli il sole splende ancora alto. Abbiamo
così tempo da dedicare, in clima di rilassato ozio, a chiacchiere,
risveglio muscolare, laccatura e smerigliatura di innumerevoli forse
infinite unghie femminili e spegnere gli ultimi focolai di accese
discussioni nate sul palco della precedente replica.
E quando anche il nostro tecnico decide di andare in pace, accendiamo i
motori e in corteo ci dirigiamo verso una pizzeria, i Faraglioni, per
fare i nomi, che avrà il compito, riuscendoci a pieni voti, di far
dimenticare la pizzeria che ha deluso tutti, il Capri, per fare anche i
cognomi, nella nostra precedente e prima venuta al S.Anna di Busto.
Pizze gustose, anche integrali, e una arrabbiata forse solo appena un
po’ al dente ma indimenticabile, portano questo desco nella parte alta
della nostra personalissima classifica enogastronomica. Inutile
ricordare la scena che sempre uguale si ripete, della nostra caposala
Flint che dopo aver scorso tutto il menu e letto tutti gli ingredienti
di tutte le pizze approfondendo con il cameriere eventuali dubbi…
scusate, avevo detto che era inutile ricordarlo. Quindi non lo farò!
Si torna in teatro. Ad accoglierci un silenzio e un gelo (entrambi reali
perché l’umido del teatro condensa con il passare delle ore) che si
affievoliranno solo a ridosso dell’apertura del sipario, quando qualche
cenno di vita farà capolino dalla platea.
Ci prepariamo pronti a tutti. Anche all’esperienza del deserto. Quale
migliore prova in vista dello spettacolo al Nuovo che in fatto di
pubblico sembra non promettere nulla di buono?
Unico vizio resta il fatto che il nostro compenso è una percentuale
dell’incasso che, già misera di suo, ne accentua la pochezza se anche la
base di calcolo resta avvinghiata allo zero.
Decidiamo così di risparmiare sul trucco e di lasciare un segno edibile
e biodegradabile del nostro passaggio sulle mura dei camerini con la
sorpresa e la gioia futura di poterlo ritrovare ad un nostro ipotetico
prossimo ritorno.
Noi siamo pronti. Il pubblico ancora no. O meglio, non è che non sia
pronto. Non c’è proprio.
Improvvisiamo uno scomposto tip tap sulle assi del palcoscenico che si
ferma solo quando qualche brusio oltre sipario ci conferma di non essere
rimasti gli ultimi uomini della terra. E finalmente il sipario si apre
su un pubblico che potrebbe essere citato nominalmente senza rubare
troppo spazio al resto del racconto.
In prima fila volti noti, di amici e conoscenti che, ancora vergini di
questo spettacolo, ci sostengono con un genuino e istintivo calore di
applausi risate e sguardi attenti e divertiti. Il resto delle teste
sparse qua e la in sala non sono da meno, seguite dal resto del corpo.
Il primo atto si chiude con Mike, improvvisato siparista, che lascia
prima la scena per sopperire così alla mancanza di aiuto tra le quinte.
E con il nostro tecnico che tra lo stupito e il divertito, ci consegna
la nostra parte di incasso, che giriamo subito a Rosemary Mortimere per
pagare il parcheggio dell’auto che, come da copione, “è lì dal doppio
del tempo per cui ha pagato” e che l’organizzazione ha deciso di
anticiparci forse temendo la nostra fuga.
Il secondo atto si apre, si, ma in ritardo, su un altro siparista che,
abbandonato alla melodia della musica che avvisava pubblico e attori
dell’imminente ripresa, ha preferito il piacere al dovere.
Salutiamo quasi nominalmente il pubblico sugli applausi finali con una
certezza. Quella di avere messo tutto il nostro entusiasmo e la nostra
energia anche in questo spettacolo. E di avere così offerto una bella
prova, forse con l’acceleratore pigiato all’inizio ma subito dosato su
una bella andatura da crociera, con accelerate e frenate solo quando il
percorso lo richiedeva davvero.
“Ma le sorprese non finiscono qui!”
Di gara si trattava, e sperando che tra i premi non ci sia il biglietto
d’oro per il pubblico più numeroso, tra sette giorni raccoglieremo,
speriamo, i frutti di questa fatica. E così, mentre si smonta
consapevoli che fra poche ore questi gesti si ripeteranno su altro palco
e altra città, annoveriamo i premi che il nostro spettacolo potrebbe
aggiudicarsi al S.Anna di Busto, tutti concordi che potremmo spuntarla
su “miglior montatura di occhiali”, “miglior paio di scarpe bicolori” o,
perché no, “miglior sipario in ritardo”.
Sigilliamo il furgone e le ultime voci sono a commentare la scarsa
affluenza ad una rassegna che non abbiamo trovato pubblicizzata in
nessun luogo, nemmeno tra le mura stesse del teatro e che, se vogliamo
definire “clandestina”, facendo il verso alla più frequentata mazurka,
che almeno si regga sul passa parola.
Milano, Teatro
Silvestrianum
- 10 maggio 2014
Alti e bassi
aprono la replica di oggi : una reprise degli Allegri Chirurghi,
parcheggiata poco più di un mese per ridare un po’ di fiato e lustro
alla sorella maggiore ferma ai blocchi da due anni.
Alto è l’umore, complice la frizzante giornata primaverile che punge di
leggiadria e vaghezza anche i più impensati membri del gruppo. E bassi,
molto bassi, sono gli argomenti presi a spunto per l’oggetto del nostro
battere, filtrato a maglie molto larghe.
E così si carica, senza sentirne il peso, passando dai consigli ai
naviganti per chi si reca in Indonesia alle più sofisticate tecniche di
assestamento del carico tramite ‘oscillazione forzata del mezzo’.
Si plana, senza accorgersene, nei sotterranei del teatro e ritrovandoci
tra le mani, senza soluzione di continuità, ma girati, i pezzi della
scena appena caricati.
Riscopriamo un palcoscenico che ha visto tutti i nostri più recenti
spettacoli arricchito con una dotazione tecnica di serie rinnovata e
maggiorata.
Si monta senza scricchiolii. Gli unici rumori sono i fiati appesantiti
dal dislivello cadenzato dai numerosi scalini. E nemmeno sentiamo la
mancanza degli attrezzi dimenticati nei meandri dell’altro spettacolo.
Abbiamo così il tempo, mentre il tecnico sopra le nostre teste adempie
al terzo comandamento, di divagare sul ‘così fan tutti’ come vizio
capitale di una società che troppo spesso pensiamo debba essere cambiata
da altri, dimenticando che gli altri (sottofondo musicale) siamo noi.
All’amen della celebrazione prefestiva il gruppo si ricompatta a
scoprire come una mascotte si possa trasformare in cena. I succhi
gastrici trovano infatti degna sepoltura da Willy (Milano, via Bergamo
1) dove varietà, forma, dimensione e qualità della pizza, fanno scalare
questo locale la vetta del nostro personalissimo gusto.
Le gioie del palato amplificano il divario tra umore e livello della
battuta, che diventa ora ancor più libera, fino ad ingaggiare gare di
slogan del tronchetto, che da alternativa al calzone napoletano, si
trasforma ora in truciolato ora in edizione straordinaria, purché non
sgoccioli.
Ed eccoci pronti ad affrontare il nostro pubblico. Oggi scarso per
numero.
La prevendita non è andata gran che, ed una sala che ci ha accolto in
passato con dei roboanti ‘Tutto esaurito’ oggi raccoglie uno sparuto
numero di spettatori sparsi a gregge nella comoda sala di poltroncine
verdi.
Il sipario si apre con le ultime pecorelle che ancora devono trovare
posto nel mondo e che mischiano alla sigla iniziale un brusio fastidioso
ma che subito si smorza. E ci accendiamo noi. Senza più spegnerci, fino
alla fino alla fine. Anche quando uno sfrigolio partito chissà da dove
lascia tutto e tutti al buio. E’ il momento delle confidenze, e in scena
David e Hubert appena scorgono i propri profili. Ma ben illuminate
restano battute e presenza di spirito, e tutto procede senza
increspature di voce e intenzione. Anche quando il nostro tecnico
teletrasportato dalla cabina regia si precipita sul palcoscenico ad
armeggiare tra cavi e prese. Anche quando, per ridare la vista ai
ciechi, senza impastare fango e saliva, un’anima pia accende le luci di
sala, trasformando noi in spettatori di un pubblico attento e divertito
che, al pari nostro, segue nonostante tutto senza sorpresa o
preoccupazione. Come se nulla fosse.
E come se nulla fosse, la luce torna ad occupare il giusto spazio. Gli
attori tornano sotto i riflettori e il pubblico sparisce nell’ombra. Per
ricomparire al termine di uno spettacolo che viene applaudito come
apprezzato ed originale, come molti commenti, forse la maggiore densità
di sempre, ameranno sottolineare.
La stanchezza ora prende il sopravvento e le scale, che in salita
rendono i gravi ancora più tali, non azzera ma certo smorza animo e
risate, lasciando senza vincitori ne vinti i finalisti del primo
concorso “Tronchetto d’oro”.
Ma gli applausi ancora echeggiano mentre volano veloci verso Amsterdam,
dove il nostro regista ha deciso di chiedere trasgressivo asilo prima di
tornare a rivestire, dalla prossima replica, il ruolo del sergente.
Vimercate
- 22 marzo 2014
Piove. Non
molto. Ma il sole delle scorse repliche viene cancellato dalla vendetta
di nuvoloni grigi. Autunnali. E freddi. Le previsioni erano meno
magnanime ma fortunatamente, quasi avesse un occhio di riguardo nei
nostri confronti, la pioggia rispetterà il meteorologo solo dopo che
l’ultimo pannello ha ritrovato posto nel furgone. Grazie. Cinq ghei pusè
ma suc.
La mazurka clandestina rubata al silenzio della notte prima da alcuni
del gruppo ha lasciato qualche strascico di sonno e di forma. E se la
camminata della caposala si corregge facilmente con una scarpa adeguata
il sonno del nostro tecnico troverà soddisfazione durante il secondo
atto. Divertente per il pubblico. Soporifero per lui. Cinq ghei pusè ma
sdraià.
Non siamo in tanti, orfani oggi anche di regista, ma bastiamo a
garantire tempi da record nel caricare il camion e altrettanto
velocemente siamo a destinazione. Durante il viaggio consumiamo il sacro
rito del battesimo dell’auto nuova di Leslie, una Dacia Subaru che
profumerà di plastica solo per un mese (poi il posacenere posticcio
inizierà a riempirsi) e che scopriamo avere un navigatore rumeno che
imbocca i sensi unici al contrario. Cinq ghei pusè ma giust.
A teatro, il grigio della giornata è amplificato dal deserto del luogo.
Nessuno ad accoglierci e tutte le porte sprangate. Chiediamo aiuto al
bar parrocchiale dove il ragazzo ci conferma lo spettacolo e sostituito
temporaneamente al bancone da Leslie, che riuscirà a vendere 10
caramelle, un sacchetto di patatine e una coca cola, si precipita ad
aprirci. Cinq ghei pusè ma vert.
Cerchiamo il modo migliore di scaricare evitando il più possibile la
pioggia e quando buona parte del carico è già a terra, i modi decisi e
scocciati quasi al rancoroso dell’intransigente parroco locale, ci
intimano l’errore: non c’è nessuno spettacolo, anche perché il teatro è
inagibile da tempo! Cinq ghei pusè ma curtes.
Tra l’incredulo e il sorpreso verifichiamo la ragion divina e dando
sfogo a risa che ancora non si vogliono sopire, riordiniamo sul furgone
i nostri stracci e ripartiamo alla volta della giusta meta, poco
distante e di facile approdo. Cinq ghei pusè ma comud.
La scena si compone senza sforzi su un palco a pendenza zero e zero
scale, costringendoci a subire un discutibile piazzato bianco,
intoccabile per inumane distanze da terra, a disegnare luci e ombre che
offuscano il brillante genere che vogliamo rappresentare. Cinq ghei pusè
ma bas.
Gustiamo dalla platea, che le luci di servizio trasformano in una pista
d’atterraggio che Willoughby affitta per il ritorno della figlia dal Sud
America, la scena incastonata su un discutibile palco per sicurezza,
tecnica e gestione degli spazi. Scoprendo poi che anche il sipario non
si chiude del tutto regalando uno spicchio di pubblico o di scena a
secondo del ruolo di chi guarda. Cinq ghei pusè ma sarà su.
Mentre organizziamo un sit in di cartelli informativi da appendere fuori
dal vecchio teatro per indirizzare l’eventuale pubblico da noi mal
consigliato, ridiamo forma e struttura ad un pannello scollato con un
intervento a colla aperta, primo vero paziente del nostro ospedale. Cinq
ghei pusè ma giustàa.
E quando anche l’ape operaia Bonney si unisce al gruppo voliamo verso
una madre pizza fragrante e gustosa che possiamo gustare in tutte le
possibili combinazioni di impasto e cottura e annaffiare con bibite
d’altri tempi che snobbano le moderne miscele dando spazio al
vintage-drink. Appuntare : il paradiso della pizza. Cinq ghei pusè ma
bun.
Orfani di caffè che in alcune zone di Vimercate sembra bandito,
rientriamo in teatro scoprendo che con abbondante anticipo una prima
coppia di pubblico ha già preso posto in sala. Chiudiamo il sipario,
quasi tutto, e ci gustiamo un caffè improvvisato dall’organizzazione che
mentre va in pressione ci conferma simpatia e gentilezza
dell’intransigente parroco locale. Per qualche motivo ancora ignoto
scopriamo per bocca di Leslie di aver salvato “patate e cavoli” e di
aver coniato così un nuovo modo di dire. Cinq ghei pusè ma fantasius.
Ci prepariamo leggeri nei comodi camerini retro palco che di tanto in
tanto le bocche dell’areazione concimano con folate di dubbia
provenienza. E arriviamo senza accorgerci all’ora del sipario. Senza
trucco, per non aggiungere ombra all’ombra. Maldestramente il sipario
viene spalancato sulla nostra intimità pre spettacolo alla ricerca di un
biscotto. Lo stupore scema solo quando scopriamo che per induzione si
riferiva al gelato (il microfono). Un’orazione funebre introduce lo
spettacolo sgranando le stazioni principali del nostro foglio di sala.
Cinq ghei pusè ma alegher.
E mentre tutto il pubblico con quaresimale mestizia era pronto al
requiem di gruppo, il sipario si apre del tutto su uno spettacolo che
riaccende un sorriso che subito vira in una risata che risuonerà per
tutta la serata. Mettiamo in scena uno spettacolo buono. Non il
migliore. Con qualche sporadico calo di ritmo ma senza evidenti
sbavature che fa subito presa sul pubblico e che scopriamo entusiasta al
termine della rappresentazione. Cinq ghei pusè ma cuntent.
Al termine c’è il tempo per ritrovare un vecchio mattatore del gruppo
che Vimercate e il cuore ci hanno rapito a cui strappiamo una promessa
di ritorno che sappiamo non potrà essere mantenuta, e per non ritrovare
gli alunni dell’infermiera Tate che qui insegna e che si sono dati
preventivamente alla fuga temendo forse di essere interrogati. Cinq ghei
pusè ma preparàa.
Rientriamo nei nostri panni nei camerini dove il vento di concime è
alleggerito dai complimenti dell’organizzazione che ci strappa una
promessa di ritorno. La scenografia, senza essere scalfita dalla pioggia
che incomincia a fare sul serio, rientra ordinata sul furgone, indecisa
se seguire le direttive del tecnico o di Connolly che si contendono a
gran voce posizione e ordine di salita delle cose. Cinq ghei pusè ma in
urdin.
Ora lasciamo riposare questo spettacolo per un mese. Ci aspetta il
gradito ritorno della cena che dopo quasi tre anni torna a fare capolino
sulle nostre scene. Per l’occasione abito elegante. Colore? Cinq ghei
pusè ma rus.
Milano, Teatro
S.Domingo
- 16 marzo 2014
Un sole pre
estivo accende temperatura e colori di una giornata nemica del buio dei
teatri. E oggi ci aspetta una pomeridiana. Meta è il S.Domingo di
Milano. Nome esotico. Ambiente un po’ meno. Arriviamo con il sole allo
Zenith, ad amplificare il contrasto con il buio umido di un palcoscenico
ricavato sotto le sacre mura di una chiesa a diretto contatto, pare, con
l’umida terra. Aspettiamo che il gruppo si compatti al sole di una
Milano che si sta chiudendo in casa per il sacro pranzo della domenica.
E quando il camion arriva scopriamo che la scia delle auto al seguito è
così lunga da arrivare al punto di partenza dove, per motivi ancora da
scoprire, il resto del gruppo è rimasto al palo.
Ma la forza lavoro è sufficiente e motivata per dare il via ad uno
scarico-montaggio scene che scorre fluido e veloce. E un’ora dopo, senza
intoppi, la scenografia veste come un abito sartoriale un palcoscenico
che per hxlxp sembra fatto apposta per indossare la nostra scena.
Rimandiamo i pochi dettagli rimasti e ci concediamo un lento pranzo di
sole e chiacchiere, dove il cibo non sembra essere la parte predominante
nonostante la trionfale torta paesana che, reduce dallo scambio
teatral-gastronomico con la compagnia napoletana che ieri sera si è
esibita sul nostro palco, addolcisce bocca e pensieri di tutti gli
astanti.
E così, sullo sfondo di un innaturale silenzio per una Milano sempre
caotica e affollata, godendo dello spicchio di azzurro che sovrasta oggi
il grigio degli alti palazzi che ci circondano, voliamo negli Emirati
sulla scia dei racconti di Rosemary Mortimere, che dietro gli ultimi
sprazzi di un’abbronzatura che sta sbiadendo, disegnano skyline e
condizione femminile di una terra nota a pochi. Resterà all’oscuro di
tutto il nostro tecnico, che decide di offrire a Morfeo questa pausa in
una posizione tra sedia e poltrona degna di un santone indiano.
Scocca la mezza, quella delle due, e siamo costretti a lasciare il
cortile assolato per scendere nelle segrete del nostro teatro che,
scopriremo, ha ospitato i primi anni di carcere del Conte di Montecristo,
migrato poi in luogo più salubre perché anche i prigionieri hanno
diritto ad un po’ di pietà.
Un caffè veloce nel bar del teatro dove il tempo sembra essersi fermato,
a rimirare tra un sorso e l’altro, la storia della sala attraverso i
manifesti delle oltre 30 stagioni teatrali, giocando a cercare anche le
nostre apparizioni.
Poi, attraverso una serpentina di corridoi che ricordano le anticamere
delle vecchie case di città con pavimenti maculati e mobili senza età ai
lati, raggiungiamo la piazza dei camerini. Dove, fotografando delfini 2d
appesi alle pareti ci prepariamo ad affrontare un pubblico che facciamo
fatica a decifrare a priori.
La sala lentamente si anima. Conteremo un centinaio di presenze, mezza
sala ben distribuita che, abbassando l’età media potremmo anche
immaginare gremita.
Il sipario si apre per le mani del nostro regista su uno spettacolo
senza trucco, per benevolenza del nostro visagista, e senza inganni.
Genuino. Fluido. Intenso. Ci divertiamo a metterlo in scena. E con noi
si diverte il pubblico che scopriamo più vispo e attento di quanto
potessimo immaginare. E anche se il professor Willoughby, mai sazio,
ingoia qualche quartina (forse nel tentativo di ridurre allo stretto
necessario la presenza delle persone in un luogo insalubre), la verve
del testo arriva a folate su un pubblico che riusciamo a spettinare.
L’unico che si addormenta è il nostro regista che ritarda l’apertura del
secondo sipario al limite della preoccupazione.
E consegniamo alla storia due ore di spensierate risate ad un pubblico
che, a gran voce, ci conferma apprezzamenti e soddisfazione,
ringraziandoci per aver fatto esondare la bella giornata anche dentro le
mura del teatro.
Ripieghiamo la scenografia eguagliando il record del montaggio e prima
che il sole inizi il turno di notte abbiamo messo in archivio anche
questa bella e forse inaspettata replica, scoprendo solo poi che siamo stati
ignari attori di un concorso che avrà il suo epilogo il 4 maggio, data a
un passo dall’essere nefasta per imperiali e nerazzurre memorie e che
per questo fa ben sperare.
Erba
- 28 febbraio 2014
Il cielo è
grigio e promette acqua. Forse solo dalla notte. Le forze in campo sono
poche, solo un manipolo (nel senso che si contano sulle dita di una
mano) di maschietti pronti a tutto. Il resto del gruppo si ricomporrà in
seguito. Il tempo è poco perché come spesso accade nelle
infrasettimanali si deve partire tardi perché il mezzo tardi si libera.
Ma il clima è sereno. Disteso. Lasciatoci alle spalle il carico di
responsabilità della scorsa replica, ora tutto ci sembra semplice. Anche
il traffico che dovremo attraversare nell’ora di punta, quella in cui
entriamo quando chiudiamo il furgone dopo aver caricato seguendo in
parallelo un corso di inglese tenuto da Leslie e avervi posto con calma
anche il penultimo pezzo. L’ultimo no. Non possiamo metterlo. I pacchi
regalo infatti sono rimasti a Milano, mancano ancora all’appello ed è
compito della caposala portarli in tempo utile per lo spettacolo.
Arriviamo dopo qualche giro su noi stessi a scoprire la cittadina di
Erba che troviamo vivace e vitale di giorno ma che l’organizzazione ci
anticipa pigra e riservata la sera, raccontandoci i 27 paganti del
precedente spettacolo e l’annullamento del successivo per mancanza di
pubblico.
Ma non ci facciamo intimorire. Non ne abbiamo il tempo. Perché è poco.
Noi siamo pochi. E dobbiamo arredare il palco in tempo utile, nonostante
l’handicap di auto parcheggiate di fronte all’ingresso del teatro che
costringe la scenografia a fare qualche chilometro di troppo. Ci aiuta
un palco che è liscio e in piano dove panta rei, tutto scorre a
meraviglia e non ha bisogno di particolari accorgimenti per considerarsi
sicura e funzionale.
Risolviamo anche il giallo dei cavi di alimentazione delle casse
scomparsi e presto anche la musica echeggia tra le pareti di un teatro
che per cromie e struttura sembrano essere un tutt’uno con la nostra
scenografia ma che si improvvisa sala da ballo per musiche folk che il
nostro tecnico adora fino a renderle clandestine.
Anche il sipario decide di mettersi in moto e i nuovi pacchi regalo,
dopo una serie di tentativi trovano l’incastro giusto per dare parvenze
umane sotto il velo di un lenzuolo da ospedale.
Tutto è pronto.
Mangiamo chi al sacco chi a pizza di diversi gusti ma ugual sapore,
scoperta oltre il ciglio della strada, dove consumiamo anche qualche
cialda di un discreto caffè per evitare di andare alla ricerca di un bar
che sembra oltre ogni orizzonte.
Due chiacchiere teatrali col Caprani, vecchia conoscenza e patron della
rassegna cui partecipiamo, che hanno il sapore di amarcord a ricordare
tempi che mai ritorneranno?
Poi, con il gruppo che si è ricompattato, in una formazione nuova con i
debuttanti Rosemary e Sergente entrambi in scena, chiudiamo il sipario
sui nostri preparativi e su una aspettativa di pubblico che speriamo più
numerosa del passato recente di questo teatro.
I tiepidi camerini, che crediamo angusti e limitati per un gruppo
numeroso come il nostro, si srotolano al piano di sotto regalandoci
gradi e spazi adeguati per ciascuno. E mentre scaldiamo la voce prima e
imploriamo San Genesio poi, quello che arriva dalla sala è un
imbarazzante silenzio.
Non è previsto intervento prima dello spettacolo. La gestione è tutta
nostra e alle 21.15, come da copione, il sipario si apre su una sala di
700 posti che ne vede occupati solo una cinquantina. Ma tutto sommato
ben distribuiti quasi a sembrarne… ancora meno.
Facciamo tesoro dell’ultimo spettacolo al Nuovo e andiamo in scena come
se il pubblico non ci fosse. E tutto sommato non è così difficile
immaginarlo. Dalla platea e dall’ampia galleria arriva un freddo
silenzio più da dramma intenso e sentito che non da partecipata commedia
brillante.
Ogni tanto qualche brusio o timida risata riesce ad arrivare fino al
palco, quasi a dirci che in sala c’è ancora vita.
Mettiamo in scena un ottimo spettacolo. Misurato. Cadenzato. Ritmato.
Interpretato. Caricaturato. Tutto alla perfezione. Forse solo qualche
sbavatura di posizione che poteva essere meglio curata su un palco tutto
sommato abbastanza grande da perdercisi. Ma sono sfumature di poco
conto.
E il pubblico apprezza. Sentiamo che i brusii guadagnano via via di
intensità. L’applauso che accompagna la chiusura del primo atto,
complice forse anche un eterno sipario, è lungo e sentito. Sincero. E
anche il secondo atto regala al pubblico una ottima performance,
nonostante il sergente che per un attimo, come per magia, si trasforma
in dottore per opera di Mortimere.
Salutiamo il poco pubblico che per apprezzamenti e calore vorremmo
sempre con noi e a tempo di record riportiamo armi e bagagli a casa. Con
una pioggia che si fa sempre più insistente che domiamo facendo salire
il camion sul marciapiede quasi a baciare la porta del teatro.
Salutiamo Erba, che andrebbe concimata almeno teatralmente parlando,
divorando l’ultima frittella di Leslie che, gradita sorpresa, ha voluto
anticipare il carnevale del gruppo.
Milano, Teatro NUOVO
- 17 febbraio 2014
Difficile
capire se è maggiore l’attesa o la tensione. O un frullato di entrambe.
Il clima è sereno ma sentiamo, tutti, la responsabilità dell’evento e il
timore di non essere all’altezza ogni tanto sfiata dalle solite battute
fatte oggi più per mitigare che per spontanea ilarità.
Questa sera ci attende il palco del Teatro Nuovo di Milano che non ci
sembra vero poterlo annoverare tra i palchi più frequentati dal nostro
gruppo, secondo solo a quello indigeno. Più che il palco però, in questo
caso poté la platea, preannunciata in pompa magna dal Rotary Milano
Centro (pronunciare con nobile e velata erre moscia) come d’eccezione e
con un selezionatissimo parterre de roi che vedrà la sua punta, di quale
foggia al lettore la scelta, nel presidente della nostra regione.
Questo impasto, pepato dalle incertezze più presunte che reali
dell’ultima messa in scena, crea quell’ansia da prestazione che
cerchiamo di convogliare verso il serbatoio della benzina.
Si carica facile in un furgone difficile. All’ultimo momento il noleggio
prende in ostaggio l’abbondante compagno di importanti trasferte per
sostituirlo con un furgone lungo a non vederne la fine ma stretto e
basso a non vederne l’inizio.
Ma il prepotente spiegamento di forze che oggi vanta più tecnici e
braccia che attori, riesce a creare il primo caso di scenografia sotto
vuoto spinto in un gioco di incastri subito brevettato da Kubrick. Ci si
mette in moto con qualche indecisione e solo dopo aver ingaggiato una
caccia al tesoro per ritrovare l’auto della caposala, si parte di volata
verso un teatro vicino per chilometri lontano per area C, parcheggi a
pagamento e traffico.
Lasciata la macchina, l’ultimo miglio a piedi è denso degli odori della
milanobene, tutti sofisticati, distaccati, spesso finti.
Il furgone sgomita in pieno centro per trovare un pertugio in cui
infilarsi e finalmente riaprire le porte ad una scenografia che torna a
vivere e respirare. Trasportata da tante operose formichine, pezzo dopo
pezzo la scenografia trova spazio su un palco caldo e accogliente. E
tutto lo riempie, con un bel colpo d’occhio che pecca forse solo in
altezza.
Attori in platea e spazio libero ai tecnici, che come funamboli su scale
volanti, a tempo di record assestano luci e ombre. E con la magia di una
misurata amplificazione, regalano la voce anche a fondo sala.
18.30. Ora di cena. Anche gli ultimi del gruppo rispondono alle armi in
zona cesarini e compatti, quasi in vacanza, ci dedichiamo un’ora di cibo
e chiacchiere in un vicino ristorantino commerciale dove facciamo
impazzire gli addetti alla cucina con richieste troppo numerose troppo
diverse troppo caotiche troppo troppe. Una corsia preferenziale alla
cassa ci porta ai tavoli dove ci godiamo il momento, rallegrato oggi da
tecnici, famiglie e truccatrici al seguito. Mai così tanti prima d’ora.
Un’ora passa veloce. Soprattutto qui, ora, oggi.
Si torna in teatro. Ed iniziano i preparativi. Quelli veri.
Segregati in un camerino comune, non potendo assaporare il gusto di uno
spazio privato depredato dagli attori dello spettacolo in scena in
questo periodo, tra macchine per cucire e ferri da stiro entriamo nei
nostri alter ego sulle note dei compiti di italiano e matematica di
figli d’arte costretti a studiare anche in uno spazio di piacere.
Siamo pronti con abbondante anticipo, mentre la sala si riempie di
capelli brizzolati e silicone.
Ci trucchiamo sotto luci frivole e affidiamo a San Genesio, patrono
degli attori, e san Babila, che abita la piazza del teatro, il destino
delle prossime due ore.
Percorriamo nervosi chilometri di quinte mentre il Rotary racconta
progetti e speranze riempiendosi la bocca di numeri e risultati in una
cornice che l’imposta apertura del sipario svela prima del tempo,
calpestando il gusto della sorpresa che al pubblico spetta di diritto.
Finalmente, dopo un forse improvvisato comizio del più alto in carica
rappresentante della regione, il sipario si chiude su uno spettacolo, il
loro, per riaprirsi su un altro. Il nostro.
Il colpo d’occhio è imponente, anche se la grande sala non è stracolma
come in altre occasioni.
E imponente e densa anche l’attenzione, forse la curiosità, crediamo
anche l’obbligo di presenza del pubblico presente.
Ma come ci siamo imposti e promessi ai blocchi di partenza, oggi il
pubblico non deve influenzare e corrompere. Non deve esserci. E
nonostante la presenza e le reazioni numerose ma sopite di un pubblico
che molla le briglie solo verso la fine del primo atto, riusciamo a
mettere in scena un primo tempo impeccabile. Non solo nella resa ma
nella caparbietà con cui sosteniamo ruolo e scene. Il tempo, forse
troppo, di riprendere fiato e ripartiamo di fronte ad una sala che
qualche cadavere ha abbandonato dimostrando quanto scelta era la
presenza a questa serata.
Liberato dalla moderata costrizione di lifting e bon ton, il pubblico
rimasto accoglie il secondo atto con una partecipazione ed un calore
quasi inaspettato e anche se offriamo qualche grado di precisione e
ritmo in meno rispetto alla prima parte, accogliamo come meritati gli
applausi che sigillano la nostra fatica.
In prima fila, il Bobo nazionale ha seguito con una divertita paresi
facciale, tutto lo spettacolo, attento e incuriosito e, a richiesta,
manifestato gli apprezzamenti.
Sulle assi del palcoscenico, ora blindato dal sipario definitivamente
chiuso, dopo un incauto ma doveroso urlo di liberazione del provato
sergente, il nostro Bobo festeggia con il resto del gruppo una bella
prova d’insieme.
Ci togliamo abiti di scena e ci prendiamo il tempo di qualche parola di
soddisfazione con amici e parenti che hanno seguito dai palchi laterali
da cui arrivava la partecipazione più intensa. E poi l’ultima fatica,
con una scenografia che a ritroso tira il fiato quando scopre che sarà
riportata a casa in un ben più ampio furgone.
Dimentichiamo i pacchi regalo, oggetti della scena thriller dello
spettacolo, ma preferiamo considerarli un cadeaux. Nel caso, li
ritroveremo il 19 maggio, quando saremo nuovamente ospiti di questa
cornice a dire la nostra con un pubblico vero e per questo più avido di
risate e divertimento.
Cesano Maderno
- 9 febbraio 2014
Stranamente
di domenica e di sera, lo spettacolo che va in scena oggi. Slittamento
imposto in zona cesarini dai festeggiamenti del primo anniversario di
Alice, figlia d’arte e di sicuro palcoscenico approdo, nonostante il
nome da fibra ottica. L’organizzazione ha fatto il nostro gioco,
nonostante il materiale promozionale già in circolazione, creando così
un falso storico che solo i presenti potranno raccontare.
La giornata è accesa da una luce tersa piena di colori animati che
sorprende anche noi, dopo tanti troppi giorni neri di pioggia. E
letiziano l’umore di noi attori che alla spicciolata raggiungiamo il
teatro di Cesano Maderno, dallo spigoloso acronimo CVP e che per la
terza volta ospiterà un nostro lavoro dopo aver per tanto tempo prestato
il pulpito, ora palco, a celebrazioni religiose.
La luce del sole sembra non penetrare il freddo della sala che ancora
deve scaldarsi. Ma il tepore dei camerini è piacevole e ospitale e
subito trasformiamo in ospedale per la caposala Flint infreddolita e
acciaccata nel naso e nella gola.
Senza sorprese, in ultimo arriva anche il camion, che ha trovato la
retta via dopo un girovagare che mai ci sarà raccontato. Perché se tra
due punti passa una e una sola retta, tra gli stessi passano infinite
linee curve, e c’è chi ha deciso di percorrerle tutte.
Dopo un inutile tentativo di far entrare il camion nel cortile del
teatro che coccia contro un altrettanto inutile traversino di cemento
armato, decidiamo di non sfruttare la proverbiale idea di sgonfiare le
gomme del camion per guadagnare i pochi centimetri necessari e di
lasciare il mezzo all’esterno. Qualche metro di ginnastica che
accogliamo con piacere visto un palco altezza strada facile da
apparecchiare.
Oggi manca all’appello il sergente di polizia, che il lavoro ha voluto
per qualche settimana altrove. A farne le spese il nostro regista, che
con due prove due, ha dato voce ad una parte che già aveva
materializzato in tante repliche davanti e dietro le scene, offrendogli
finalmente le gioie e i dolori dell’interpretazione. E’ teso.
Visibilmente teso. O forse solo scaramanticamente preoccupato. Ma è il
solo. Ci ha abituato alla sua presenza scenica. E siamo tranquilli e
felici di vederlo sul palcoscenico non solo per gli applausi finali.
E manca all’appello anche la voglia del nostro tecnico, che dichiara
subito il clima da gita che oggi lo accompagna provato da un
atteggiamento dimesso e divertito che stride con il costante rintocco
dei suoi richiami di cui oggi sentiamo nettamente la mancanza.
Il palcoscenico sembra della misura perfetta per la nostra scenografia
che si compone a memoria e senza sbavature. Nemmeno quelle della colla
usata per rimediare ad una brutta scollatura di un pannello. Il colpo
d’occhio dalla platea è notevole. Aggiungiamo un letto nell’improvvisato
ospedale per ospitare anche calo di pressione e tachicardia del
professor Willoughby, che si trova improvvisamente ad essere sorretto da
un pannello che credeva di sorreggere. In gergo: scambio di ruoli.
E si corre, ma senza fretta, verso il Papillon, che come il
palcoscenico, per la terza volta ospiterà la nostra compagnia.
Indimenticato il cameriere che ci accoglie con una cinematografica
cadenza milanese e che aggiunge una garbata simpatia alle gustose pizze.
Che passano in secondo piano quando sul desco calano le nuove
rivelazioni sugli alieni che hanno trovato terreno fertile nella cultura
scientifico-spaziale di Leslie e che vuole a tutti i costi condividere e
imporre ai commensali. Il risultato è una cena divertita e divertente
che strappa la promessa ai più di documentarsi sulle tesi narrate da
Angelo, che con un piccolo cambio di lettera ed un veloce anagramma
trasformerebbe in Alieno, e che, senza le esortazioni del nostro tecnico
ancora in gita rischia di scivolare oltre lo spettacolo.
E poi si corre, ma senza fretta, verso il teatro, i camerini, lo
spettacolo.
Arriviamo all’apertura del palcoscenico tra pacche sulle spalle del
debuttante sergente e fette di torta e panettone-uovo-di-cioccolato che
aggiungono il dolce al salato della pizzeria. Il nostro tecnico torna
dalla gita giusto per mandare in pezzi la pistola di scena del sergente
e provare a ricomporla nel migliore dei modi ritrovandosi per le
mani il solito pezzo che… ma c’era prima?
Il pubblico ha quasi riempito una sala che da qualche tempo la crisi
lascia sempre con qualche posto vacante. E’ imbeccato dal simpatico e
vibrante Franco che annuncia lo spettacolo. E subito siamo accolti,
sotto i riflettori ancora tiepidi, da applausi e risate divertite che
accendono subito lo spettacolo. Ma subito, lentamente, si spengono.
Ancora non hanno fatto capolino tutti i personaggi del primo atto che
sentiamo il pubblico allontanarsi, farsi piccolo, silenzioso, assente.
Qualche sommessa timida risata che non ha la forza dell’insieme e che
non riesce ad esplodere. E così per buona parte del primo atto,
costringendoci involontariamente ad incedere a passo spesso troppo
spedito o a calcare troppo la mano su caricature e colori dei
personaggi. Il primo atto finisce con qualche incertezza negli sguardi
nostri e un pubblico che sembra essersi ora risvegliato.
Decisamente meglio, almeno per le risposte che ci arrivano dalla platea,
il secondo atto. Che scivola felice nonostante qualche intoppo
linguistico e una parrucca che ha deciso, volando, di violare il testo e
svelare il trucco.
Dopo una caccia al tesoro con il pubblico a scoprire tra gli attori il
regista, lasciato provvidenzialmente per ultimo, il sipario si chiude
definitivamente, aprendo una costruttiva chiacchiera su cosa non ha
funzionato. Lo spettacolo che è andato in scena non è stato dei
migliori, tutti concordi, ma nonostante tutto godibile. Da ricordare il
debutto del nuovo sergente, che impermeabile alle repliche sin qui
subite, senza sbavature ha saputo interpretare un personaggio tutto
nuovo e altrettanto riuscito e convincente. E quando le sensazioni
stanno lasciando il posto alla stanchezza e allo smontaggio, un paio di
commenti scarabocchiati dal pubblico prepotentemente le riaccendono,
impastando un humus di incertezza e forse insicurezza a minare la
prossima replica che, sul prestigioso teatro Nuovo di Milano, ha bisogno
di punti fermi. A spegnere ansie e paura ci pensa l’eterno doppio petto
di Franco, che dopo aver aperto il nostro arrivo con calore simpatia e
attenzioni rare, ci saluta raccontandoci il difficile gusto di parte del
pubblico che critica tutto ciò che non è strettamente dialettale (nel
più ristretto senso del termine).
Cancelliamo definitivamente anche queste pensieri che, dovessero
tornare, cureremo con le erbe seguendo i consigli del libro che
l’organizzazione ci ha voluto simpaticamente omaggiare.
Un musical in mezzo e poi di nuovo al Nuovo.
Bottanuco
- 18 gennaio 2014
La replica
bergamasca di oggi, grigia e fradicia di pioggia, inizia con un saluto,
l’ultimo, al papà di una componente storica del gruppo, che alcuni di
noi hanno voluto ricordare non solo con il pensiero ma anche con la
presenza.
Per non compromettere orario di carico e partenza, chi non ha conosciuto
Chiara, deposto l’ombrello ha prestato le braccia al carico del furgone.
E quando i due gruppi si sono ricompattati per la partenza, la gara tra
chi è più bagnato è stata ampiamente vinta dagli sfiniti pulcini (questa
l’immagine che ci hanno regalato) chi si sono occupati del furgone.
Si parte in azzurro. Le attrici presteranno la voce ad un premio
letterario locale e ci raggiungeranno solo nel tardo pomeriggio, giusto
in tempo per la cena.
A nuoto raggiungiamo la destinazione e dopo un indeciso peregrinare per
intricati sensi unici del centro, troviamo la via che ci porta
direttamente sulle assi del palcoscenico. Per fortuna. Adagiamo il
cassone del camion alla tettoia preambolo del retro palco e scarichiamo
intonsi, lasciando l’incessante pioggia a bocca asciutta. Dopo aver
apprezzato sia l’architettura, che ha sapientemente conservato il
vecchio ampliando con il nuovo, che la dotazione tecnica del luogo,
collochiamo tutti ma proprio tutti i pezzi della nostra scena su un bel
palcoscenico ampio, completo e ben pensato. Unico sgarbo l’impossibilità
di piantare chiodi. Ma la scarsa pendenza non ce ne fa sentire la
mancanza.
E dopo aver agevolmente montato, ci stendiamo ad asciugare sulle comode
poltroncine di sala ad attendere i piaceri della vita : donne e cibo,
fantasticando su capannoni da acquistare se solo la cassa fosse nelle
mani di Leslie. Ma la piega della chiacchiera diventa politica quando un
sms ci avvisa che il concorso letterario ha subito un drammatico ritardo
per via di una imbarazzante lite fuori programma e fuori luogo tra
sindaco ed ex assessore. L’apparizione di due cuoche che si
materializzano sul palcoscenico a chiederci, nell’idioma del luogo, per
quando vogliamo mangiare, ci riportano alla realtà e alla tavola, che
troviamo imbandita. Azzerato garbo e galanteria, non aspettiamo l’arrivo
delle femminucce per sgomitare su noci di grana e golosi panini
imbottiti che si estinguono prima che possano diventare memoria. Le
attrici non verranno mai a sapere della loro esistenza. E anche il
profumo, unico indizio a scoprire la nostra ingordigia, è a ruota
coperto da un pentolone fumante di spaghetti al pomodoro che annuncia
l’arrivo del resto del gruppo. E si mangia finalmente tutti insieme con
più attenzione ai racconti di chi ha vissuto stupito e inorridito alle
faide carugatesi che non al cibo che si porta alla bocca. Ad
approfittarne il professor Willoughby, che dopo un paio di bis, decide
di tuffarsi direttamente nel pentolone ad evitarne anche il lavaggio.
Le attese di pubblico sono incerte. Il tempo non aiuta e il nostro
spettacolo non è in dialetto. Mix esplosivo per lasciare alla
provvidenza di accompagnare per mano un po’ di gente in sala.
Scaramanticamente il botteghino viene aperto alle 20.00. Ma le lancette
corrono veloci, e mentre come le lancette, non per la fretta ma per il
freddo dei camerini (meno di 13 gradi – ndr) entriamo nei panni del
nostro alter ego teatrale, la sala resta drammaticamente deserta.
I più ottimisti azzardano di andare in scena anche per un solo
spettatore. Ma tutto sommato è ancora presto. E mentre per eccesso di
zelo il nostro visagista trasforma tutti gli attori in abbronzati
turisti d’alta quota, dalla sala arrivano i primi timidi brusii.
Alla fine si conteranno 70 anime che hanno sfidato acque e idioma. Ma
già dalle prime battute, risate e applausi a scena aperta fanno a gara
per sembrare molti di più dei loro proprietari.
Presi in braccio dal pubblico voliamo leggeri per due atti. Concentrati
e sciolti insieme. Curata la caratterizzazione e preciso il ritmo. Forse
un cedimento all’inizio del secondo atto. Subito ripreso e rimesso sui
giusti binari.
E così, mentre il regista si diverte ad immortalare oltre 700 scene
dello spettacolo, asciughiamo l’umidità del coraggioso pubblico con il
nostro calore e le risate che concimiamo ad ogni battuta.
Si sfiora il dramma quando la cartella clinica tenta di dividere in due
il naso della caposala, che avrebbe comunque avuto immediato supporto
dai colleghi. E arriviamo salvi e sani al sipario, oggi elettrico e
centralizzato, con la speranza auspicata dal simpatico e premuroso
Rossano, che chi c’era divulghi la bella esperienza alimentando
l’invidia di chi ha preferito la pigrizia del divano ad una risata dal
vivo.
Smontiamo asciutti, e veloci salutiamo gli amici di Bottanuco che stanno
già crescendo gli eredi, abbarbicati a fede ed ombrello bianconero, a
questa passione, riuscendo a concederci un'ottima e rara pizza notturna
allo Stregone della vicina Brugherio, a commentare la movimentata
giornata e lasciando che la stanchezza lentamente prenda il posto
dell’adrenalina ad accompagnarci nel sonno.
Abbiategrasso
- 12 gennaio 2014
Dopo i
bagordi del 31 dicembre, ci adagiamo in una più rilassata pomeridiana,
ancora vibranti della eco della bella esperienza di fine anno.
L’appuntamento è fissato per l’ora prandiale direttamente a destinazione
e gli ultimi ad arrivare sorprendono i primi ancora con il boccone tra i
denti, impazienti e tanto affamati da consumare il pranzo in piedi in
solitaria. Abbiategrasso, luminosa come solo l’azzurro d’inverno sa
essere, si sta lentamente svuotando tracimando nei soggiorni della
domenica che oggi abbiamo sacrificato al teatro.
Arrivando, alternanza di sole e nebbia ci hanno regalato tiepidi
contrasti di luci e ombre.
Nel teatro che ci accoglie fanno a pugni sacro e profano. Dominano lo
stile e i colori e gli spazi dei teatri parrocchiali del dopoguerra dove
la “Toeletta” prende un accento moderno con accessori che ti accendono
la luce e ti aprono automaticamente l’acqua in bagno, dimenticandosi
puoi che deve anche essere spenta. Gradito il tepore che ci avvolge in
tutte le stanze rendendo piacevole la sequenza di atti che dal montaggio
al saluto finale sono riti ripetuti a memoria ma che così hanno un
sapore più dolce.
Il palco ha dimensioni perfette per il nostro spettacolo. Manca solo
forse un po’ profondità che risolviamo con la soluzione easy collaudata
con successo a Novara. E così la scenografia sale facile tra gente che
mangia, caffè d’asporto e russate dell’abbondante tecnico locale.
Risolviamo il mistero della brugola scomparsa ricacciando a casa il
regista che abita a tiro di voce, e anche la porta è operativa.
La galleria è agibile solo a metà, perché metà dello spettacolo vedrebbe
il pubblico seduto oltre questo limite. Ma due metà fanno un intero, e
quindi non ce ne preoccupiamo (!?!)
I nostri camerini, rigorosamente unisex, hanno l’alternato ruolo di bar
- area ricreativa – sala cerimonie, e non ci stupiamo quando scopriamo
che deve ospitare anche frizzi e lazzi di un battesimo locale. E così
mentre le attrici entrano nella parte (e negli abiti di scena) i
maschietti si godono una molleggiata e spartana R4 d’epoca, che ben si
sposa con lo stile del teatro e che tanti ricordi spolvera nei presenti.
Ci cambiamo ma non ci trucchiamo, con la benedizione del nostro tecnico
visagista forse influenzato dall’abbandono post prandio del suo gemello
indigeno. Anche il regista si accomoda in sala con tutti nostri averi
deposti a cassaforte in una busta e a lui affidati.
Il teatro si anima in un attimo e, accompagnato dall’entusiasmo, la
simpatia ed i generosi sorrisi della compagnia locale in tuta rosso
Ferrari, prende posto sognando un pit-stop e ci regala un impegnativo
sold-out.
Veloce presentazione dello spettacolo dove scopriamo che in scena oggi
debutterà Dino Lamperti, già nomination FITA per lo stesso ruolo, e si
va in scena, con un decollo lento ma verticale, a toccare apici di
soddisfazione e divertimento raramente percepiti. Noi lasciamo nei
camerini solo qualche battuta, a gustarsi i dolci battesimali,
digeribile dazio da pagare per aver boicottato le prove settimanali. La
rinnovata energia della prima moglie del protagonista, tornata dopo la
santa pausa, aggiunge un’altra bella pennellata al quadro.
E meritati sono gli applausi per tutti, che gustiamo fragorosi, e che
fanno alzare in un esordiente ed appagato inchino il nostro tecnico
proclamato al popolo come il visagista delle dive, soddisfacendo l’ego
ma non il merito, almeno per oggi, del protagonista.
Scherzando con il pubblico, ci autoinvitiamo a casa della mamma del vice
sindaco, ex albergatrice a garanzia di quantità e forse di qualità.
Si smonta con la paura nebbia, che per fortuna accenna solo a scendere
senza compromettere visibilità e ritorno.
E visto che per una volta la serata inizia quando il nostro spettacolo
finisce, ci concediamo brindisi e pizza tutti insieme, senza che
l’apertura del sipario incomba sulle nostre teste.
La buona notte è scandita da un sms del capocomico della Maschera di
Abbiategrasso : “Mi stanno sommergendo di complimenti. Gr0azie.
Bravissimi bravissimi bravissimi.”
Gorgonzola
- 31 dicembre 2013
Ultimo
giorno dell’anno. Ultimo spettacolo dell’anno. Ad affidarci la croce e
la delizia di allietare la fine del 2013 è il Teatro Argentia di
Gorgonzola. Bella e ambiziosa struttura che già ha ospitato in passato
la nostra cena.
Ne siamo deliziati come per ogni ‘prima volta’. Ma sentiamo anche il
peso della responsabilità sollevata a braccia dallo spirito di gruppo e
dal desiderio innocente di vivere da protagonisti l’evento.
Il carrozzone che ci porta a destinazione è quello che si è affezionato
a noi nelle trasferte importanti e le sue generose dimensioni, oltre a
rendere più semplice il carico, danno maggiore enfasi al circo. Sul
sedile di guida ancora calde le impronte dell’autista del GTTempo.
Si carica spensierati in un clima di euforia, eco delle feste ancora in
corso, divertendoci a provare nuove combinazioni di un puzzle che non
vogliamo sempre comporre a memoria. Ci siamo tutto, o quasi, compreso un
doppio tecnico e due braccia aggiunte e in venti minuti si carica e si
parte dimenticando a casa solo l’infermiera Tate, schiava di una cena
che dovrà preparare senza gustare.
Arriviamo all’Argentia accolti dalla frenetica soddisfazione di Pier che
si è trovato a gestire nelle ultime ore un’impennata di prenotazioni che
hanno raddoppiato la promessa di pubblico. Come mai prima, a suo dire. E
che ancora non smettono di irrorare il botteghino.
Entriamo in sala dalla parte del pubblico ben sapendo che il nostro
posto è la, su un palcoscenico ancora celato da un maxi schermo che
ospiterà il conto alla rovescia in diretta con il calimero di RaiUno.
L’impatto non ti lascia indifferente. Forse 800 posti, forse di più, che
cadono a pioggia su palcoscenico che profuma di arena, dove il pollice,
dritto o verso del pubblico, decreterà o meno il nostro successo. E
ancora torna a farsi sentire quell’ansia che, speriamo, alimenti la sana
tensione che dà energia all’attore e allo spettacolo.
Il palco è ampio senza eccessi e con accesso diretto dal camion alle
assi del palcoscenico. Il massimo del risultato con il minimo sforzo. Il
sogno di ogni mont-attore. Una leggera e irregolare pendenza crea
qualche indecisione sulla disposizione dei pannelli di fondo e laterali
che superiamo agilmente, scoprendo solo a lavoro ultimato che il maxi
schermo, intrappolato dalla nostra scenografia sopra il graticcio, dovrà
scendere, come cenerentola, a mezzanotte spaccata. Gioco di squadra e
tutta la scenografia, come fosse su un tapis roulant, indietreggia di un
metro, creando qualche falla laterale ma salvando il brindisi.
Puntamento curato, il tempo c’è, di luci e fari e rigorosa prova tecnica
con Stefanino che, per la prima volta da solo, dopo l’assaggio pilotato
di Novara, porterà il nostro spettacolo a varcare il nuovo anno.
Gozzovigliamo nel teatro che nel frattempo si è fatto buio e deserto in
attesa delle pizze, più che scelte, imposte dall’unica pizzeria aperta
che, fortunatamente tra gli optional ha anche la consegna a domicilio,
mettendo così a riposo il nostro Meme che appare e scompare da ogni
anfratto del luogo chiedendo da ogni cantone quando si mangia. Non è un
gran che, ma è calda e già pregevolmente tagliata, e arricchita dal
chilo di torrone che vagabonda con noi dalla trasferta di Novara e che
da dignità alla cena.
Ultimi accordi sul tabellino di marcia, che dovrà essere rigoroso per
arrivare per tempo alla fine dello spettacolo e al brindisi, e ci si
prepara. Salutato Meme che ha deciso di passare un capodanno danzante,
orfani del nostro truccatore che per rapidità è entrato nel guiness dei
primati, arranchiamo tra abiti, trucco, san Genesio, Gervasio e Protaso
e riscaldamento vocale fino all’ora della partenza. Siamo già ai blocchi
quando ancora scorrono sul maxi schermo pubblicità e promo
cinematografici che ci permettono di assistere curiosi e non visti, al
frenetico e costante riempirsi della sala. La, in un angolo, anche i
familiari che si sono uniti, ospiti del gruppo. E finalmente le poche
parole di Pier al pubblico fanno scattare il grilletto dello starter. Ed
è rush.
Impeccabile. Lo spettacolo scivola con il giusto ritmo per tutte e due
gli atti. E un pubblico castigato che all’inizio sentiamo presente a
singhiozzo, non ci crea imbarazzi. Siamo tutti rimasti nei camerini e in
scena abbiamo fatto scendere i nostri personaggi. Puliti. Presenti.
Reali. Credibili. Divertiti e divertenti. E anche un intervallo che va
oltre il dovuto volendo offrire a più di 400 persone un rinfresco
dolce-salato in soli dieci-minuti-dieci, non ci distoglie dalla storia
che stiamo raccontando.
Finiamo 10 minuti prima del nuovo anno. Lasciamo ringraziamenti e saluti
a poi, salutiamo l’infermiera Tate che deve tornare di corsa ai resti di
una cena che ha solo preparato e ci gongoliamo in un veloce saluto di
amici, parenti e pubblico mentre il maxi schermo cancella la nostra
scenografia con una chiassosa festa televisiva, al solo scopo di
sincronizzare gli orologi. A tempo di record tutti si ritrovano in mano
una fetta di panettone e un bicchiere di spumante. Il tempo di
recuperare un microfono e inizia, ora leggeri, un conto alla rovescia
pilotato da tutto il teatro. Fuori i botti. ma non li sentiamo. Dentro
tutta la nostra allegria che condividiamo con un pubblico che sentiamo
amico e famigliare.
Raccogliamo molti complimenti. Quale migliore augurio per il nuovo anno?
Accompagniamo all’uscita un pubblico che con il brindisi ha
definitivamente abbattuto la quarta parete, regalando un’ultima mezz’ora
di gag e risate, riproponendo le scene salienti dello spettacolo
lasciando al pubblico di indovinarne la chiusa.
E cala definitivamente il sipario lasciandoci una smorfia si
soddisfazione e allegria dipinta sul viso che ancora non si è spenta del
tutto.
Siamo entrati con un balzo nel nuovo anno con la certezza di essere più
gruppo di prima e con l’unico rammarico di qualche giustificata assenza.
Novara
- 14 dicembre 2013
Scale.
Scale. Scale. Scale. Questo il ritornello o meglio la litania che ci
accompagnerà prima e dopo lo spettacolo. E ci appaiono subito, in tutto
il sudore che promettono, appena arrivati a destinazione.
Oggi non si carica. Il camion è già pronto da ieri e l’unico impegno è
quello di arrivare a destinazione. Cosa non facile, in una Novara
addobbata a festa con le piazze gremite di pattinatori su ghiaccio,
negozi aperti carichi di avventori e banchetti e pellicce e urla che
riempiono le strette vie pedonali del centro.
Il camion si infila nell’unico pertugio che consente di affiancare
l’ingresso del teatro. E aperte le porte del furgone inizia la discesa
agli inferi. Tre rampe di ripide scale appesantite da una curva a
gomito. Sulle pareti ancora fresche le lacrime e il sangue della nostra
replica di Rumors di qualche stagione fa. E non aiuta.
Ad alleggerire il carico le braccia in più di Andrea, che ha sposato
regista e passione, e Stefanino, che debutta alla tecnica e che ha
energia e salti da vendere.
Sostituito il dimmer che ieri ci ha lasciato al buio oggi, non è più
venerdì 13, la tecnica sale senza quasi che ce ne accorgiamo. E il
palcoscenico, che rispetto a quello di Borgomanero è un monolocale senza
servizi (uno fuori uso l’altro senza luce), riusciamo ad arredarlo
riducendo al minimo gli sforzi. Ci inventiamo una scenografia tutta
nuova limitata alla parete di fondo e sedie e scrivania verso il
proscenio : il massimo del risultato con il minimo sforzo. La maggior
parte dei pannelli resteranno a riposo sul camion regalandoci le energie
che la replica ha di bisogno.
Confortati dalla bella prova di Borgomanero ceniamo al sacco con la
serenità e l’ilarità che per un’ora ci regalano le atmosfere di un
pic-nic estivo. A temperature polari. Il riscaldamento non funziona e a
nulla valgono i tentativi per rimetterlo in funzione. Spetterà a noi
scaldarci e scaldare il pubblico.
Intanto a scaldare le corde vocali ci pensa l’immancabile involontario
humor di Leslie che tra cavalli che nitrano, pixel fallici, evergreen,
gradi Fahrenheit tradotti in improbabili tiratardi e interpretazioni del
teschio nell’Amleto di Shakespeare, mette in scena un repertorio mai
così grasso. Con rischio per qualcuno di soffocamento da boccone
malmasticato.
Fuga per un caffè al volo in un bar vicino dove rischiamo di perdere il
Sergente che, dimentico del ruolo di pubblico ufficiale, viene
sopraffatto da uno squilibrato ginnasta della città che promette a gesti
e sbuffi botte a oltranza, per poi dissolversi con la stessa velocità
con cui si è materializzato.
Ci cambiamo alla velocità della luce non per la fretta ma per il freddo,
indossando strati e strati di abiti civili sotto quelli di scena. E via.
Un sipario ancora più lento e a costante rischio di blocco si apre quasi
senza accorgercene su uno spettacolo che replica, increduli, e questa
volta senza sbavature, la qualità messa in scena il giorno prima.
Il pubblico è quello di città, che percepisci attento e più misurato, ma
che non tarda a farsi sentire e ad accompagnarci con risa ed applausi. E
bella copia del giorno prima anche il siparietto finale ad accompagnare
la lotteria dell’organizzazione, misurata a metri di cioccolato e
accompagnata dalla musica del nostro tecnico improvvisato dj.
Lasciamo Novara particolarmente soddisfatti di quello che siamo riusciti
a mettere in campo in questi due giorni e, sotto i portici di una città
fredda e umida, fatichiamo a salutarci come a non voler rompere
l’incantesimo.
Borgomanero
- 13 dicembre 2013
Mai giorno
fu più propizio per mettere in scena il nostro spettacolo che,
ambientato a Natale, ben si colloca in questo periodo fatto di strenne e
addobbi. E per non perdere questa ghiotta occasione andiamo in scena per
due giorni di seguito. Oggi a Borgomanero. Domani lasciamo la provincia
e saremo nel cuore di Novara. Ma andiamo con ordine, visto che oggi
l’ordine sarà solo nella sequenza del racconto.
Special guest della giornata è Roberta, che torna nei ranghi a
sostituire Patrizia negli spettacoli di dicembre. Una nuova Rosemary
Mortimere, avvezza al ruolo di moglie fedele che calza ormai da tre
generazioni di spettacoli, ma non ancora a questo testo. Le ultime prove
sono state tutte dedicate a lei, ma questo non le ha evitato di
presentarsi con le occhiaie imposte da due notte insonni a ripassare
parte e paure.
Oggi il camion è noleggiato, ritrovando così il biasse che ci ha
accompagnato nella lunga trasferta di Casamarciano. Ora però deve
accogliere una scenografia diversa. E ci stupiamo nel vedere quanto
spazio riusciamo a risparmiare. Tutto sale agile e veloce. E altrettanto
agile e veloce è la guida di un Bobo improvvisato autista che cede a
malincuore il suo cavallo ad altri per domare la bestia. Con una guida
più da rally che da cauto trasporto merci. Ma, nonostante il centro di
Borgomanero chiuso che ci costringe a peripatetici percorsi alternativi,
tutto arriva intero a destinazione, compreso il navigatore Valentina che
si è affidata preventivamente a tutti i protettori on the road che il
lunario può offrire.
Saliamo su un palco che già conosciamo ma che non ricordavamo così ampio
e di cui si scorge a malapena la fine, che si perde all’orizzonte dei
camerini. E la nostra scenografia a fatica riesce ad occupare in
larghezza tutta la piazza teatrale. Per contro è un gioco da ragazzi
preparare tutti i pezzi del puzzle in uno spazio senza confini.
Con la cena, rigorosamente al sacco per assenza di posti di ristoro
nell’intorno, arriva anche il nostro tecnico Meme, che avrà il gravoso
compito di montare luci e audio in un teatro nudo, e Adele, che
ritroviamo dopo qualche anno e che ci accorgiamo di non aver mai
dimenticato nella forma e nei colori e nei modi con cui ci ha sempre
accolto.
E il convivio che dovrebbe accompagnarci all’apertura del sipario si
trasforma nel delirio che la data avrebbe dovuto quanto meno farci
presagire. Un adattatore che non si adatta e che deve essere violentato
per portare corrente al quadro di regia che ci catapulta a ridosso dello
spettacolo. E quando tutto sembra finalmente pronto… Buio! I fari uno
dopo l’altro cessano di respirare e non c’è elettrostimolatore che
tenga. Dimmer saltato.
L’espressione di Meme è eloquente. Nei suoi occhi si legge l’impotenza e
l’arresa. Immagine mai vista prima in chi ha sempre una soluzione per
tutto. Ma è santa Lucia e, se il nomen è anche omen, la soluzione che
salva capra e cavoli la dà la luce di sala che, opportunamente dosata,
illumina il palco facendolo sembrare più una corsia di ospedale che un
teatro. Ma tutto sommato, fa al caso nostro.
Ora le ultime paure da vincere sono quelle del debutto di Rosemary e
della voce di alcuni provata dalle debolezze di stagione.
E sarà la tensione e l’adrenalina dei problemi prespettacolo. E sarà la
concentrazione che le ultime paure ci impongono. E sarà scendiamo in
campo senza trucco. Quello che va in scena è uno spettacolo perfetto. In
tempi, ritmo, caratterizzazione e fedeltà al testo. Come mai prima. Sul
tabellino finisce solo una battuta dimenticata da qualche parte nei
camerini.
E meritato è il calore del numeroso pubblico che ci accompagna con
sincere e partecipate risate sin dalle prime battute. Fino all’ultima,
lenta, interminabile chiusura di sipario.
Una serie di gag che l’euforia del gruppo e l’altezza di Adele rende
particolarmente spumeggianti, accompagnano una improvvisata lotteria e
l’impazienza del nostro tecnico che non vede l’ora di imbandire il
camion per fare velocemente ritorno a casa.
Lasciamo la fredda Borgomanero con il calore dell’abbraccio avvolgente
degli ottanta anni della mamma di Paolo, tecnico autoctono, che ha
apprezzato i ringraziamenti fatti a lei e al figlio per una
disponibilità e gentilezza che fino ad ora tutti hanno sfruttato senza
riconoscenza, riassumendo in uno sguardo indelebile tutti i sacrifici e
le passioni spese silenziosamente in anni di buio in quella sala e che
qualcuno ha per un attimo portato alla luce.
E domani si replica. In città.
Pioltello
- 23 novembre 2013
Pioltello.
Delizia e castigo. Gioia e dolore. E fatica fatica fatica. Tanta fatica.
Un auditorium destinato anche a rappresentazioni teatrali che un
architetto - titolo da verificare - ha voluto al terzo piano del palazzo
comunale raggiungibile solo grazie ad una scala a chiocciola che al
secondo pannello si impone con una totale perdita dell’orientamento.
Decidiamo così con largo anticipo sull’evento, nonostante l’ampio palco,
che i pannelli più pesanti sarebbero rimasti a riposo.
Apparecchiamo il camion con la regolarità e l’eleganza di una tavola
delle feste, trasformando le spigolosità mischiate e apparentemente
disordinate che Picasso avrebbe invidiato in un ordine e pulizia di
linee e forme sicuro spunto per un moderno De Chirico.
Dieci minuti e siamo a destinazione. Quasi tutti. Il navigatore di
regista e direttore del consiglio di amministrazione, acronimo B.O.B.O.,
vuole a tutti i costi che l’auto dei malcapitati passi attraverso le
barricate innalzate dall’amministrazione comunale per doverosi lavori di
ripristino del manto stradale. E così si perdono nella poesia della
lenta pioggerella che cade leggera nel grigio tramonto autunnale di una
periferia forse ancora più grigia, dimentichi dell’impegno preso e
leggeri nel loro pigro peregrinare. Quando il gruppo si ricompatta,
superato lo shock dello sforzo da affrontare che qualcuno – in una
doppia burla - ha fatto credere poter essere mitigato da una mai
esistita rampa di carico, metà del carico è a destinazione, tra le
nuvole del terzo piano già ampiamente osannato, anche grazie anche
all’aiuto di un montacarichi che riduce lo sforzo massimo ai soli
pannelli.
Con tutto il carico in paradiso, madidi di sudore, smessi gli abiti da
sherpa e indossati quelli da muratore, montiamo il nostro habitat su un
palco ampio che ci impone, come unico quesito da sdoganare, dove e come
posizionare le quinte nere a chiudere i troppi buchi. E con qualche
compromesso risolviamo velocemente anche questo dilemma.
Dieci minuti per godere insieme del video promozionale dello spettacolo
realizzato dalla “Connolly video’s” e siamo pronti per la cena con
quell’anticipo sui tempi che ci permette di vivere tutto più
tranquillamente. Tranquillità che sfuma in un amen quando scopriamo che
il tanto atteso ristorante Leon d’Oro, delizia del palato nelle
precedenti repliche a Pioltello, ha chiuso i battenti per raggiunti
limiti d’età dei proprietari. E scatta il piano B, suggerito con qualche
incertezza da Leslie, indigeno di queste terre, che timidamente accenna
ad Erika, pizzeria che dice senza infamia e senza gloria (anche perchè
l’ultima volta che ha frequentato il loco è stato alla festa dei suoi 18
anni, almeno altrettanti anni fa….). Raggiungiamo la pizzeria nelle
nebbie dell’auto dello stesso Leslie che ci descrive l’intorno che
possiamo solo immaginare, almeno fino a quando non decide di aprire
l’aria e ridarci la vista.
Il locale è accogliente, la pizza decente e anche i piatti alternativi,
di chiara ispirazione romagnola, si difendono bene. Parlando di abdution
veri o presunti, dividiamo la sala con un compleanno che noi abbiamo
festeggiato ere fa e non ci accorgiamo, nel piacere della chiacchiera,
che il tempo scorre inesorabile costringendoci ad ingurgitare il caffè
per poi correre in teatro e scoprire che l’organizzazione stava
componendo il numero della Sciarelli ipotizzando a sua volta un abdution,
il nostro. Ad attenderci la sorpresa Roberta, che dalla prossima replica
vestirà i panni di ‘Rosemary Cara’ e vuole saggiare ritmi e atmosfere
prima di entrare nel personaggio.
Con noi arriva il primo pubblico, che ci costringe al silenzio dietro le
quinte dove ci prepariamo in sordina subendo l’intraprendenza
dell’organizzazione quando ci definisce, noi e tutti gli umili e sinceri
operatori teatrali, prostitute da palcoscenico.
Senza accorgercene siamo in scena. Ad accoglierci un pubblico raccolto
ad anfiteatro che subito si scalda e che segue attento e divertito uno
spettacolo quasi senza sbavature che tocca il suo culmine di ritmo e
scioltezza in un secondo atto che regista e tecnico mettono sul podio.
Ci troviamo agli applausi finali soddisfatti e divertiti. Siamo stati
attori e pubblico allo stesso tempo offrendo e godendo lo spettacolo,
giusto premio ad una fatica che è solo al giro di boa. Ma con questa
leggerezza nel cuore anche le scene sembrano scivolare lungo le scale
che ci riportano verso casa. E anche la pioggia che ha ripreso a battere
decisa non scalfisce la nostra soddisfazione.
Bussero
- 9 novembre 2013
Trasferta
quasi podistica quella di oggi. Ad aprirci le porte del proprio teatro
tocca a Bussero, cittadina alle porte di Carugate che vanta una
collaborazione storica con il nostro palco. In realtà, più che di un
vero e proprio teatro, si tratta di una sala sopra la biblioteca
cittadina adibita da troppi anni ad una apprezzatissima e collaudata
rassegna di teatro amatoriale e non. Il palco non è grandissimo e così
il nostro tecnico, in uno slancio di egoistica premonizione, vede (o
forse solo guarda) lontano e suggerisce di non portare i pezzi da 90
della nostra scenografia, che per peso e dimensione non troverebbero
facile collocazione sul misurato palco bibliotecario. Non ci sono
obbiezioni e la proposta diventa legge.
Legge che subito abbiamo il piacere di apprezzare. In un fiato siamo
infatti a destinazione, scoprendo che le vie di accesso al cortile del
teatro sono tropo strette o non agibili, imponendoci metri di sudore e
sangue che la visione del nostro tecnico ha ridotto all’essenziale. Come
formiche in coda, salendo la doppia curva a gomito delle scale che
portano alla sala, spargiamo prima a casaccio e poi con la collaudata
sequenza tutti i pezzi del mondo che questa sera abiteremo per un paio
d’ore, impiegando la maggior parte del tempo a decidere come disporre le
scene per non bucare intavolando un braccio di ferro con le antipatiche
e intoccabili quinte premontate sul posto che rubano inutilmente utile
spazio a scena e attori.
Disponiamo quel che resta nel piccolo spazio dietro il palco che fa ‘da
tutto’, camerini compresi, e abbiamo tutto il tempo di gustarci la
nostra cena, senza il tecnico, che decide, a giochi fatti, di
raggiungerci solo verso la fine del pasto. Raggiungiamo a piedi, sotto
un cielo nero e lucido di luna e di vento, il ristorante pizzeria Il
Circolo che, se ci accoglie con una portineria e una rampa di scale
stile palazzina anni sessanta che qualche perplessità fa nascere
istintiva, ci spalanca le porte su una sala in stile vintage provenzale
che toglie tutti da ogni imbarazzo. E il piacere ha la sua iperbole
quando arrivano le pizze. Buone. Buone. Buone. Tutte. Rendendo quindi il
luogo tappa obbligata per chi si trovi nel raggio di 50 km verso l’ora
di cena. E il momento è magico. Gioia per il palato e per le orecchie
che, tra costosissimi caffè estratti dalle feci di una scimmia che deve
essere per forza nervosa e ultimi ritrovati della tecnologia, arriviamo
a scomodare involontariamente Goldoni affibbiandogli un improbabile ‘Le
quattro comari di Winx’ che traduciamo per la cronaca ne ‘Le allegre
comari di Windsor’ di Shakespeare per scoprire che l’origine di tutto
era ‘Le baruffe chiozzotte’ del primo Goldoni. Misteri inspiegabili.
Si torna in teatro rinfrescati da un vento freddo che ci ricorda che
l’estate se n’è andata da un pezzo. Ci prepariamo con calma dedicandoci
i pochi centimetri di camerino che ognuno si merita e che scopriamo
troppo stretto per contenere le scomposte risate che esplodono quando
Leslie ci racconta cosa può succedere quando si versa dell’acqua da un
cestino bucato da metà in su e le tonnellate di carta necessarie per
riportare a lucido l’unico bagno presente sul posto e che deve servire
per le esigenze di tutti, ma proprio tutti, i presenti.
Ci trucca il nostro tecnico, questo vuol dire recuperare 15 minuti buoni
che dedichiamo a chiacchiere e relax mentre apprezziamo il rumoroso
chiacchiericcio che arriva dalla sala in costante aumento fino al limite
massimo dei posti che possono essere occupati. Ed è tutto esaurito. E si
parte.
Il lento sipario si apre sulla scena e su uno spettacolo che alla fine
definiremo shakerato. Complice forse la troppa tranquillità che ci ha
accompagnato allo spettacolo, riusciamo a proporre uno testo inedito,
dove suoni gutturali, battute da riordinare per averne il compiuto senso
e personaggi che cambiano costantemente nome ma non ruolo, saranno i
veri protagonisti indiscussi. Ma riusciamo a tenere botta e a offrire
comunque all’ignaro (forse) spettatore una serata divertente e gustosa.
E sono tanti i complimenti che riceviamo al termine, inaugurati da
quelli di una atletico sindaco che atterra sul palcoscenico a inondarci
di divertiti apprezzamenti.
Sbrighiamo le solite formalità. Salutiamo e ringraziamo Fausto, il
capocomico indigeno che da secoli è nella nostra rubrica telefonica, e
ritorniamo in un attimo verso casa, permettendoci una seconda serata a
base di birra e panini a ripercorrere tutte le sfumature della giornata
insieme, come da tanto non si faceva e tanto, scopriamo, ci mancava.
Segrate
- 18 ottobre 2013
Dopo la
bella SCOMMESSA che ha aperto la stagione amatoriale nostrana e che ha
seminato nuovi esordienti nel gruppo, con la speranza che presto abbia
altre repliche da raccontare, torniamo nelle corsie dell’ospedale più
allegro del mondo.
A caricare siamo in pochi. Ma ordinati. E il risultato finale è un
camion apparecchiato in buon ordine, dove ogni cosa sembra collocata più
per gusto estetico che non per semplice flusso migratorio. Stanchi
camalli percorriamo il breve tragitto che ci separa con il Toscanini di
Segrate senza avere il tempo, alla guida, di ristorare i muscoli. E ci
spaventiamo alla vista delle torri gemelle che inglobano le scale che
portano al secondo piano dell’edificio, sede della performance. Ma è
solo un’illusione ottica, malamente alimentata da chi conosceva la
struttura. Basta aggiungere qualche grado alla prospettiva per scoprire
un’ampia autostrada gradinata e senza gomiti che faticosamente ma
agevolmente ci porta a destinazione.
Ingaggiamo una decina di promesse del facchinaggio, virgulti in età
scolare che abbandonano per una mezz’ora i loro giochi per creare una
catena umana che porta i carichi leggeri sulle assi del palcoscenico. Al
gruppo, che intanto è aumentato di numero, restano i pesi massimi.
Le dimensioni ridotte del palcoscenico ci consentono di dimenticare a
terra i pannelli più pesanti e rognosi. E così, tra un tentativo andato
a vuoto di ordinare qualche pizza per dimenticare il pranzo al sacco che
ci ha suggerito la location defilata del teatro e una serie di ‘pronto
intervento’ imposti dagli acciacchi più o meno noti e più o meno di
stagione di alcuni componenti del gruppo, montiamo ormai a memoria la
scena con qualche piccola revisione negli accesi laterali.
Prove tecniche di luci e audio e c’è il tempo per il sonnellino del
nostro affaccendatissimo tecnico, che, in casi di stanchezza come
questi, dormirebbe anche appeso a testo in giù. Il resto del gruppo
preferisce investire il poco tempo in panini e chiacchiere, agevolate
dai giovani Franceschi al seguito che devono raccontare di bracci rotti
e ingessati a 90 gradi netti e di gatti depressi che perdono vibrisse
alla disperata ricerca di uno psicologo.
Poi si va in scena. O meglio crediamo di farlo. Nonostante i nostri
tentativi di boicottare la proiezione di un filmato da parte
dell’associazione che ha organizzato l’evento, il filmato ha luogo. E ci
sciroppiamo una buona mezz’ora di chiacchiere (che ci arrivano sfumate),
di immagini (che ci arrivano al contrario) e di tensione che prima sale
sale sale e poi si affievolisce a rasentare tedio e sonno.
Finalmente il sipario si apre (grazie all’esperienza manuale del nostro
regista segregato a topo di teatro in un anfratto delle quinte) e con
lui la scena, lo spettacolo e le risate del pubblico che ci hanno
davvero accompagnato per tutta la durata dello spettacolo. Cogliendo (e
arrivandoci) ad ogni sfumatura.
Il gruppo è stato all’altezza e ha regalato al non numeroso pubblico che
gremiva solo le prime file di una bella struttura, un spettacolo curato
soprattutto nell’interpretazione e nella caratterizzazione dei
personaggi che solo gli occhi gonfi di sonno del nostro tecnico non
hanno saputo, o meglio potuto, sempre cogliere. Quasi impeccabile nel
primo atto, con quale sbavatura nel secondo, che la stanchezza della
settimana e l’ora tarda possono ampiamente giustificare.
Resterà sul campo solo il defibrillatore, che dopo tante repliche ha
bisogno di un piccolo restauro. E, immancabilmente, un orecchino di
Leslie, quasi a lasciare un personalissimo segno su ogni palco che
calca.
Si fatica a ritroso per smontaggio e rientro apprezzando il breve
tragitto che ci separa da casa.
Valmadrera
- 26 settembre 2013
Tre mesi. 26
giugno – 26 settembre. Sono passati tre mesi esatti dall’ultima replica
degli Allegri della passata stagione e oggi ci ritroviamo a riaprire i
battenti. Due date. Due rami di uno stesso lago dalle tante anime. Si
chiudeva a Como per la pausa estiva si riapre a Valmadrera, all’uscio di
Lecco, dove “Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra
due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda
dello sporgere e del rientrare di quelli, vien, quasi a un tratto, a
ristringersi, e a prender corso e figura di fiume, tra un promontorio a
destra, e un'ampia costiera dall'altra parte…”
E l’occasione è importante: scelti una di sette tra quaranta
pretendenti, siamo chiamati a rappresentare il teatro Lombardo
all’interno della Festa Nazionale del Teatro organizzata dalla FITA che
si affida anche a noi per tenere alto il buon nome della produzione
istrionica della nostra regione.
Noi ci presentiamo nel bel teatro Nuovo di Valmadrera, in un caldo fine
pomeriggio d’un autunno timido e impacciato che non riesce a dire la sua
all’estate che, tranne solo nel calendario, ancora spadroneggia. Alle
spalle abbiamo una sola prova. Fatta per altro con il cast incompleto.
Carichiamo il camion disegnando le nuove geometrie che la riduzione dei
cubi neri ci permette, rendendo tutto quanto meno più ordinato.
L’estenuante traffico che ci accompagna per tutto il tragitto ci porta a
destinazione con il sole rapito dai monti e poco tempo per tutto.
Fortunatamente il palco è quello che il buon teatrante sogna ogni notte
: facile da raggiungere, in perfetto piano orizzontale e ampio ampio
ampio.
Così, nonostante o per l’organico ridotto, in meno di un’ora la scena è
pronta, spoglia solo di tende e omino-pacco-regali che lasciamo
all’arrivo dei diretti interessati. Il gruppo si compatta durante la
frugale cena self-made che consumiamo sparpagliati sulle comode poltrone
della platea.
Il colpo d’occhio è buono e anche se dietro la finestra non c’è
quintatura nera, scopriamo piacevolmente che il fondo bianco che
normalmente ospita le proiezioni del nemico cinema, con una geniale
trovata illuminotecnica si trasforma in un celo stellato. Solo un
piccolo quasi trascurabile neo : la scena si svolge in pieno giorno.
Apprezziamo comunque l’idea, anche se, per noi, inutile.
Non c’è molto tempo per le solite chiacchiere, e le gag e le risate che
accompagnano il pre partita sono oggi usurpate da preparazione trucco
parrucco abbigliamento e due parole con gli organizzatori per rendere
impeccabili anche i momenti prima e dopo lo spettacolo.
Segreghiamo regista e tecnico sotto il palco. Li vedremo spuntare
durante tutto lo spettacolo da una piccola botola adagiata alla ribalta,
osservare divertiti da una inedita posizione tutto l’evolversi della
storia. E, ci diranno poi, anche preoccupati di vedersi travolti da
qualche attore che nell’impeto della scena, dimentico dell’abisso, si
facesse fagocitare.
Lo spettacolo tiene bene il ritmo che abbiamo voluto imporre sin dalla
prima replica. E siamo ricompensati da un pubblico che lo ha colto ed
apprezzato. Un pubblico, non numerosissimo, fatto anche di “colleghi”
giunti da ogni dove per i tre giorni di festa e che ci ha sostenuto
durante e dopo lo spettacolo con sentiti vivaci e calorosi
apprezzamenti.
Dall’interno lo spettacolo non è stato impeccabile, segnato da qualche
piccola sbavatura e un paio di cadute di ritmo che però non hanno
compromesso nulla e che, per digiuno e preparazione fatte, potevano
essere ben più marcate. Salutiamo la terra del Manzoni con le parole dal
palco del presidente nazionale che ci ha onorato, scelti fra altri,
della sua presenza e ringraziando di cuore lo staff del teatro,
capeggiato da Valentino, rude dal cuore tenero, che, a ben pensarci,
preso a soggetto da Wilde, ben poteva rappresentare il Ritratto del
nostro Meme.
Como
- 26 giugno 2013
Ultimo
spettacolo prima della pausa estiva. E quello di stasera sarà uno
spettacolo “fuori dal comune” nel senso più stretto del termine. Ad
ospitare il nostro allestimento, infatti, sarà il cortile di Palazzo
Cernezzi, sede del Municipio di Como.
Uscita infrasettimanale. Tradotto : si parte tardi e si deve correre,
anche se il fatto che lo spettacolo inizia alle 21.30 ci regala mezz’ora
di ossigeno in più. Fortunatamente, nonostante l’ora critica della
partenza, il traffico è agevole. Unica tortura il profumo sprigionato
dai dolcetti-coccinella della nostra caposala Flint che invadono l’auto
e fanno grondare le fauci ma che l’amazzone della cucina ha difeso con
le unghie fino alla cena. Arriviamo a Como in un attimo zigzagando nel
traffico cittadino per trovare l’accesso al Palazzo che ha un piede
nell’isola pedonale. La magnanimità del Cerbero a guardia del luogo fa
entrare il camion e un paio di auto. La sua ignorante e prosaica
arroganza gonfiata dal potere dei piccoli che il ruolo gli permette di
esercitare, ne lascia fuori altrettante.
Si entra sfiorando i pilastri che sorreggo la camera del consiglio con
il rischio di far crollare l’amministrazione e ci si ferma nel primo
cortile. Il secondo, dove è allestito il palco, ha l’accesso decisamente
troppo stretto e il camion rischierebbe di restarne incastrato per
sempre.
E così, mentre diamo per dispersi gli equipaggi banditi dal guardiano
dell’Ade che ha tre teste ma non ne usa alcuna, iniziamo la transumanza
delle scenografie da un cortile all’altro scoprendo, nel dileggio della
chiacchiera, che il luogo, raccolto e circondato da un elegante portico
colonnato della metà dell’1800, ha una acustica perfetta. Siamo
all’aperto, prima volta per questo spettacolo, e il palco allestito è
quello tipico da piazza : un rettangolo di legno e ferro. Largo ma molto
stretto. Niente quinte. Per tetto un quadrato di cielo.
Lasciamo sul camion i microfoni e diamo forma alla scena. Una nuova.
L’ennesima. Imposta dalla situazione. Quintiamo con i nostri pannelli e
rubiamo tutta la profondità del piano segregando il volo della caposala
al retro palco, guadagnando credibilità. Lasciamo sul campo solo un
brufolo di Leslie ferocemente eliminato dal pesante spigolo di una
quinta.
Check sound e veloce puntamento delle quattro lampade alogene che,
posizionate a livello palco regaleranno al pubblico una stravagante
illuminazione dal basso che, non recitando in ginocchio come qualcuno ha
suggerito, dipingerà sui volti spettrali giochi di luci ed ombre che
avrebbero ispirato la Shelley a nuovi romanzi.
Inaugura il palcoscenico un nuovo attore : nome d’arte Mirò, razza :
setter inglese a pelo rosso, proprietà : Caprani di Canzo. Monologo
memorabile, il suo, che però non riesce a spodestare il padrone dal
ruolo di brillante ospite ed intrattenitore che, caloroso salottiero,
non perde occasione di raccontarsi con la sua profonda voce baritonale
amplificata da un ampia cassa acustica figlia di tanti pasti di lavoro.
Finalmente ci fermiamo e ammirando quanto abbiamo costruito ci
dedichiamo al nostro pranzo al sacco e al sacco di pranzo che si è
portato il nostro regista che, sfinito a metà del guado, cederà il
testimone al fidato Willoughby. Ed è piazza pulita. E piazza pulita
facciamo anche, finalmente, delle coccinelle della nostra caposala.
L’attesa è valsa tutta.
Caffè-hour nel budello pedonale della città dove al conteggio delle
tazze da riconoscere al barista il grido “paga chi ce l’ha lungo” mette
in fuga un avventore di colore parcheggiato ad un tavolino dietro di
noi. Limiti della lingua. Non aveva inteso che ci si riferiva al caffè!
Abbiamo ancora un po’ di tempo e c’è chi decide di confondersi tra i
turisti sul lungo lago gonfiato dalle piogge e chi nel prepararsi con
calma nello spogliatoio / tipografia dove, in un italiano zeppo di
accenti e vocali sparsi a caso, un cartello gentilmente ci invita a non
toccare e spostare nulla.
Nonostante il trucco sia bandito, riusciamo ad arrivare in zona cesarini
sul palcoscenico mentre la caposala ancora sta impomatando la cresta di
Leslie e il Caprani ammalia il pubblico con note sullo spettacolo e la
rassegna tutta. Di fronte a noi una platea che, ravvivata da un
venticello fresco e monello, ha gremito ogni ordine di posti rubandosi
le ultime sedie che, scaramanticamente, avevamo lasciato impilate sotto
i portici dell’improvvisato teatro e andando contro ogni previsione
dell’organizzazione che era speranzosa ma scettica sull’affluenza della
serata.
Sicuramente molto hanno fatto gli scarrafoni del sergente che, ignari
emuli degli strilloni di epoca shakespeariana, all’ingresso del cortile
invitavano alla piece ogni potenziale spettatore.
E si parte. E mettiamo in scena un buon lavoro, senza eccessi ma degno
di essere ricordato, con qualche taglio e licenza di troppo, fino ad
arrivare a moltiplicare a dismisura i mariti della signora Leslie.
Il pubblico è lontano. Complice l’aria aperta e il divertimento
imbrigliato che il pubblico di città ci ha abituato a riconoscere, non
riusciamo a creare quel legame che fa esplodere uno spettacolo. Sui
volti le poche luci del palcoscenico che sfuggono sul pubblico ci
mostrano però una rassicurante divertita attenzione. Il primo atto
finisce con un applauso interminabile, quasi a voler richiamare in scena
gli attori e chiamare alla mente il dubbio che col primo atto si
chiudesse, per il pubblico, lo spettacolo (gioia del nostro tecnico,
umiliazione per l’attore). A scanso si equivoci confermiamo la presenza
di una seconda parte fortunatamente ben accolta dal pubblico che forse
mai ha messo in discussione la cosa. E con la temperatura che scende
cala anche, figurato, il sipario sul secondo atto e, questa volta si,
sullo spettacolo che i commenti del pubblico ci sorprenderanno per
quanto sia stato apprezzato per qualità, ritmo, gag e divertimento.
Si smonta al buio di una città che si sta svuotando, caricando alla
meglio le nostre cose. Un giro di baci e abbracci per augurarci buone
vacanze e un meritato riposo. Al rientro ci attende una nuova Scommessa.
Milano Gratosoglio
- 6 giugno 2013
Quando la
stagione sembrava ormai concludersi con la trasferta camuna, si sono
aggiunte in zona Cesarini, un paio di date infrasettimanali che abbiamo
accolto a braccia aperte. Oggi ci tocca la prima.
La giornata lavorativa impone una revisione alla tabella di marcia e
alla disponibilità degli attori. Numericamente decimati, a pomeriggio
inoltrato ci incontriamo al solito punto “X” (fosse stato “G” saremmo
stati molti, molti di più) in una giornata finalmente calda, quasi
afosa. Carichiamo senza feriti scoprendo che sul camion c’è sempre più
posto libero : o siamo pronti al battesimo del camallo o abbiamo
dimenticato qualcosa! Appurato che è buona la prima, si parte,
inaugurando l’aria condizionata per rendere più agevole il breve
viaggio. Destinazione Milano – Gratosoglio : terra di confine meneghino
che inglobata dalla metropoli ha comunque voluto mantenere nel nome la
propria identità storica, gracile rivincita autonomista alla
fagocitazione urbanistica.
Ed è subito esordio per l’insostenibile leggerezza di quell’essere che
da sempre ci allieta con involontaria comicità : il nostro Leslie, che
trasforma la signora Anna Baldassarre, che un annuncio mortuario pieno
di buone prospettive per chi legge, ci racconta averci lasciato 2 anni
dopo il secolo di vita, nella mamma dei Moschettieri, relegando così a
ruolo di selezionato schermidore del re di Francia l’imperatore degli
indiani che più di 2000 anni fa seguì una stella sotto il fardello di un
pesante carico di incenso. Si ride fino a destinazione, quando le scale,
agevoli ma ripide, che portano alla sala del teatro, ne impongono la
fine.
Ad accoglierci un oratorio in festa, che il nostro spettacolo deve
onorare. Zigzaghiamo con il camion tra cancelli e persone facendo il
filo a tutto quello che troviamo sul nostro cammino e raggiungiamo la
zona di carico.
Veloce sopralluogo a scoprire un palco stretto ma comodamente largo e a
studiare come ridurre al minimo la fatica delle scale che, grazie agli
ultimi agevoli spettacoli, avevamo velocemente dimenticato. E con gli
attori che arrivano a rate e a rate aggiungono potenza al fuoco, si
inizia la salita che si macchia velocemente di sudore e fiato corto man
mano che il carico si fa pesante, come l’aria all’interno del teatro.
Solo al limite della disidratazione scopriamo dietro le quinte una serie
infinita di finestre che spalanchiamo a portare un alito di vita in uno
spazio ormai sottovuoto spinto.
Il tempo è caldo e poco, ma ci basta per montare una scenografia che
gestiamo senza indugi. La scarsa profondità ci costringe a sacrificare
il sipario, soluzione ormai rodata e comunque d’effetto per il pubblico
che entra in sala e trova la policromia del nostro ospedale e non la
monocromia di un sipario ostile. Tra un pannello e l’altro i baci e gli
abbracci di tutti a Don Mauro, che ci regala questa apparizione a
sorpresa e che raccontandoci di come questa sia la sua nuova parrocchia
ci riporta a quando, pascendo le pecorelle di Carugate, saltava con noi
sulle assi del palcoscenico di casa nei panni di un improbabile lupo di
Gubbio nel San Francesco del collaudato gemellaggio Kaos-GTTempo.
Si cena negli spogliatori della squadra di calcio locale gustando un
rustico rinfresco offerto dall’organizzazione, organizzando un altro
convivio, quello di domenica appositamente organizzato per dare degna
sepoltura alle prelibatezze camune, e, visto il luogo, giocando a
pallone. Attendiamo il caffè fantasticando trasferte al Petruzzelli di
Bari ospiti a casa del pugliese del gruppo, sempre che dopo aver
stravolto l’epifania facendo portare oro incenso e mirra ai tre
moschettieri, non abbia confuso anche il teatro e il luogo oggetto della
chiacchiera, mentre il nostro tecnico condivide con il clero locale
progetti e memorie montane.
E poi, nominato visagista ancora una volta il nostro tecnico per
comprimere i tempi del trucco, mentre un nugolo di ragazzini scorrazza
seminudo nello spogliatoio, che abbiamo loro usurpato, inondandolo di
docce e vapore, si va in scena, quasi senza accorgercene (ma solo dopo
aver sostituito a tempo di record il lettore cd che si era innamorato di
una traccia e non voleva più lasciarla e richiuso le mascelle che hanno
ceduto di colpo quando Rosemary, nel tentativo di passare da una quinta
all’altra, si è ritrovata con la gonna a farle da sciarpa).
E’ uno spettacolo. Nei due sensi del termine. Nonostante fosse una
infrasettimanale che tipicamente ci adagiamo a ‘portare a casa’, come
ama esprimersi il nostro tecnico, ha tutti i contorni di una bella
prova, rappresentata con la tranquillità e la presenza di chi è in
scena, sa di esserlo e ci si diverte. Tanto. E il pubblico fa la sua
parte regalandoci tanti applausi che spezzano il ritmo ma tanto appagano
il nostro ego, e tante, tante, tante risate. Rumorose. Fragranti.
Sincere. Lo spettacolo scivola con qualche errore ma senza incertezze,
scoprendo anche il nostro tecnico che, operando dietro le quinte, nei
momenti di scarsa attività, lascia la poltrona presidenziale disegnata
da Morfeo, per seguire divertito lo spettacolo.
Ritorniamo inaspettatamente in scena, richiamati dal pubblico quando
ormai con la testa volgevamo allo smontaggio e salutiamo a soggetto
incassando i tanti e sinceri complimenti amplificati dal sorriso ancora
disegnato sulle labbra del pubblico. E dopo aver congedato un attore
‘navigato’ che ha provato a venderci un amico che non poteva trovare
posto nella sua compagnia, affrontiamo, scena in spalla, la fatica della
discesa, supportati e coccolati dalla compagnia locale che non ci ha
fatto mancare attenzioni, disponibilità, simpatia e tanto… the freddo!
Darfo Boario Terme
- 19 maggio 2013
Stranamente
di domenica si parte per questa nuova replica orfani del regista
appiedato da un auto che cade per la seconda volta a Carugate in quella
che sembra sempre di più una via crucis che una trasferta teatrale. Ma
sappiamo che sarà comunque spiritualmente con noi.
Si viaggia come negli oratori di una volta, in auto separate: maschietti
da una parte, femminucce dall’altra. Sul camion non le persone di dubbia
sessualità ma solo l’equipaggio che non ha trovato posto in uno dei due
oratori.
E si parte col sole, viaggiando sotto un cielo carico di nuvole che
corrono veloci verso mete sconosciute, scoprendo solo all’arrivo che il
punto di incontro anche per loro era la valle bresciana meta del nostro
pellegrinaggio. Manco a dirlo, quindi, si scarica con la pioggia.
Ad accoglierci il sorriso pieno di spifferi dello zio Fester di Darfo,
che si improvvisa anche mago estraendo dal cilindro keyway per tutti,
che per il nostro Drake diventerà subito una seconda pelle pensando di
elevarlo a nuovo costume di scena. Ma non fa in tempo ad
impermeabilizzarci che la sua pelata ci ritorna di riflesso il luccichio
del sole che fa capolino tra le nubi fino a squartarle.
Il teatro è quello dello scorso anno, accogliente e con una pendenza che
si doma facilmente. E in 50 minuti dal nostro arrivo la scena è montata.
Ed è record! “Campioni del mondo! Campioni del mondo! Campioni del
mondo!” Ma i record, si sa, non sono fatti per essere celebrati, ma
infranti, preparandoci così a nuove future sfide. Il palco è ampio e
usiamo agevolmente tutti i pezzi della scenografia, promessa al pubblico
di una bella macchia di colore che ben si fonde con le eleganti
poltroncine blu della platea.
Col tempo dalla nostra, si cazzeggia per un’ora in attesa che i succhi
gastrici lancino il loro richiamo. Decidiamo di investire il nostro
tempo provando a montare la tenda IKEA che senza istruzioni, e senza
l’architetto che ci raggiungerà più tardi, un pool di cinque esperti
improvvisati riesce a modellare nelle forme più svariate prima di farle
rientrare nel ruolo loro assegnato nel freddo nord da un architetto dal
nome impronunciabile mutuato ai drappi. Il resto del gruppo si consuma
in corso accelerato di “recupero spazio pc” che solo domani sapremo se
puntuale o drammaticamente eccessivo.
E’ l’ora. Della cena. E ci mettiamo in moto verso la nostra meta che
prima che un luogo è uno scioglilingua (“Piamborno di Piancogno” –
ripetere velocemente 10 volte). Seguiamo il TomTom bresciano di zio
Fester che ci porta a destinazione non senza fallo solleticandoci con il
gutturale accento autoctono. Un aperitivo “spruzzato” offerto nei
giardini del ristorante (per la cronaca “Le 2 Magnolie”) per un attimo
trasforma tutto in un ricevimento nuziale. E “spruzzata”, sgarro alla
regola che aggiunge qualche grado all’umore, sarà anche la cena, dove,
dando il cambio a frotte di cresimandi ed affini che abbondano consumati
il locale in stropicciati abiti confetto, ci tuffiamo nei piatti della
cucina camuna, densa di sapori e accostamenti forti e gustosi che
trangugiamo quasi eguagliando il record del montaggio scene. E’ qui che
incontriamo tutta la vulcanica energia positiva del nostro “gancio”, in
tuta da Avon-corsa.
Si torna in teatro. Volando. Lo spettacolo va in scena con mezz’ora di
anticipo e il tempo per dismettere i propri panni ed entrare nel nostro
piccolo mondo parallelo è davvero poco. E mentre l’inno dell’Andos
cantilena a ripetizione su un pubblico che lentamente prende forma, per
guadagnare tempo il nostro tecnico si trasforma nel più abile visagista
delle dive e, dopo un primo inciampo che rischia di mandare in scena il
sempre giallo “Dieci piccoli negretti”, stabilisce un nuovo record
truccando tutti gli ometti nel tempo di un amen. Tranquillizziamo
l’agitazione di qualcuno con la serafica constatazione che “…tutto
sommato in questo spettacolo le battute non sono importanti”. Inventiamo
coprolalici incipit alla commedia che, se ben mediati, potrebbero anche
arrivare a travaglio. Gustiamo, scaldando i motori, il piacere di vivere
spettinati, bella metafora che ci porta alle luci della ribalta. Via!
Lo spettacolo è il giusto corollario di una bella giornata. Fila tutto.
E fila bene. Giusti i tempi e le intenzioni. Qualche involontario taglio
non toglie nulla allo spettatore o al ritmo. E il pubblico lo sentiamo
arrivare caloroso sul palcoscenico sin dalle prime battute. Giusto il
tempo di sistemare, ora con l’archIKEAtetto, le tende che stavano
cedendo tra un atto e l’altro, e arriviamo agli applausi finali con le
luci che si accendono in sala a scoprire i volti ancora deformati dalle
risate. Raccogliamo una pioggia di commenti che il numeroso pubblico ha
voluto scolpire sui nostri fogli di sala, emulando i rupestri antenati,
e riceviamo , chi una chi due a seconda di quanto natura ha abbondato,
una collanina-amuleto che, vuole la leggenda, possa tenere lontano il
tumore al seno, che anche noi, con lo spettacolo offerto
all’associazione, abbiamo voluto combattere.
Si smonta con lo stesso gioco di squadra e con la stessa pioggia del
pomeriggio. Brindiamo ai compleanni di Sergente e Hubert con una
quantità di dolci che potrebbero deliziare tutta la valle ma che non
trovano il gusto del nostro Fester, che timidamente ci mostra tutta la
sua impazienza di chiudere e forse tornare dall’omonima zia, dove gli
spifferi potranno trovare reciproco completamento. E prima che il giorno
si consumi del tutto, con addosso l’energia di questa valle, ma anche i
suoi sapori e suoi profumi addensati in un cesto di prelibatezze
nostrane, siamo in viaggio verso il ritorno. Sotto la pioggia,
ovviamente!
Travedona Monate
- 11 maggio 2013
Anche questa
volta la primavera ha deciso di boicottare il nostro spettacolo. Ma la
contesa, questa volta, è stata vinta dai quasi trenta gradi di un sole
che ci ha catapultato in estate e che ci ha permesso di rispolverare le
nostre magliettine autoreferenziali.
Arriviamo a destinazione facendoci violenza per sfuggire all’insidioso
richiamo dei colori e del luccichio del lago, italica sirena, che ha
costeggiato il nostro ultimo tratto di strada. Ci accoglie il sorriso e
la disponibilità nostrana dell’organizzazione che si butta così alle
spalle il precario orgoglio di averci ospiti ufficialmente decantato dai
manifesti di precedenti edizioni.
Entriamo in teatro e soffochiamo i colori e gli spazi aperti della valle
varesina nella penombra del piccolo palcoscenico del Santamanzio, che
ricordavamo tutti un po’ più abbondante. Ma, “Bicocchino” insegna,
questa volta abbiamo già la soluzione tracciata dall’esperienza:
sacrifichiamo l’apertura del sipario e incastriamo la scenografia nel
boccascena, con un impressionante effetto sottovuoto talmente spinto in
avanti da scivolare nel pubblico. Ci aiuta la perfetta orizzontalità del
palcoscenico che semplifica il montaggio e garantisce al tutto una
stabilità granitica.
E così la scena si posiziona a memoria, dandoci il tempo, nel mentre, di
seguire un corso tenuto dal nostro tecnico su “I mille modi di usare un
pezzo di legno”, conoscere le peculiarità della mutanda marsupio di
Leslie, fare i sentiti complimenti al nostre sergente divenuto zio di
sei… gatti e declinare (quasi tutti) un invito a “striscia la notizia”
subito bistrattato dallo stesso promotore.
Decidiamo di non provare la parte di chi ha saltato le ultime prove,
sicuri della nostra preparazione, e dedichiamo il tempo che resta al
puntamento delle luci che, intermezzato dai circensi equilibrismi del
sergente che in punta di scala ridarà vita ad un faro spento, durerà più
del montaggio scene.
Ore 19. Ci incamminiamo per acciotolati vicoli d’altri tempi verso la
cena, scoprendo così il ruscello che, ricolmo di erba di dubbia fama,
lambisce il teatro e lo trasforma, nell’immaginario di chi forse ha
avuto l’ardire di assaggiarne le verzure, in un antico maniero
circondato dal suo fossato.
Ceniamo da Yanez, pizzeria che brilla di cortesia, velocità e buon gusto
negli arredi. Qualcuno resta sconvolto dal prezzo fissato a 5 euro per
tutte le pizze, mettendone in discussione formato e dimensioni, subito
smentito dalle politiche commerciali aggressive del locale. Per evitare
inutili perdite di tempo, il nostro tecnico, oggi in vena di
classifiche, riassume al cameriere “Le 10 domande da fare sempre prima
di entrare in pizzeria” che vanno dall’aranciata amara alla rucola, dal
caffè al ginseng alle olive nere. Funziona. Perché guadagniamo almeno 10
minuti. Pizza? Gustosa. Leggermente indietro nella cottura.
Si torna in teatro. Senza fretta. Abbiamo tempo. E ci prepariamo nei
camerini sotto palco, con una temperatura che ci fa sentire più un vino
da invecchiare che personaggi di una commedia. E mentre stagioniamo
serenamente in botti di rovere, scaldando voce e ambiente con i nostri
versi propiziatori, il poco pubblico si accomoda nei pochi posti della
piccola platea : in tutto 108 comode poltroncine. I presenti saranno
2000 per gli organizzatori. Una sessantina per la questura. E questa
volta mi sento di dare ragione alla questura.
I trucchi di scena sono rimasti a casa, costringendoci ancora una volta
ad uno spettacolo ‘nature’ che va in scena senza preamboli o
presentazioni. E il bilancio della performance è presto fatto :
spettacolo a singhiozzo, dove abbiamo sapientemente alternato momenti di
assoluta perfezione a momenti di libero vagabondare tra le pagine del
testo, lanciando sulla scena battute alla rinfusa giusto per “vedere
l’effetto che fa!”. E così ci siamo divertiti ad inventare il termine
“improvvido”, per scoprire poi che qualcuno lo aveva già sdoganato
inserendolo in referenziati dizionari. O a giocare a tombola con i
numeri dei distretti di polizia, senza peraltro fare neppure ambo.
E nonostante tutto questo lo spettacolo è piaciuto, almeno a giudicare
dagli applausi finali, dalle risate che ci hanno accompagnato srotolando
lo spettacolo, e nell’osservare le diversamente giovani signorine,
parcheggiate in prima fila, che hanno seguito tutta la storia saltando
dal ridere nelle loro poltrone ad ogni battuta.
Ancora una volta, al pubblico è arrivato uno spettacolo diverso da
quello che l’attore sente e vive amplificando impasse e cadute di ritmo
e imperfezioni recitative che allo spettatore non arrivano o arrivano
smorzate o addirittura impercettibili.
Risate e commenti sempre uguali e sempre diversi accompagnano l’addio al
teatro che questa sera è particolarmente veloce (anche questa sera le
attrici sono state dispensate dal montaggio, sarà solo una
coincidenza?). E così a mezzanotte si torna verso casa. A farci
compagnia ancora il luccichio delle acque del lago, mitigato, ora, dalla
luce della più timida luna.
Milano
- 20 aprile 2013
Piove e
piove. Ancora e ancora. La primavera ha deciso di boicottare i nostri
spettacoli, almeno sino ad ora. O è la pioggia ad avere di forza il
sopravvento e ad accompagnare tutte le nostre trasferte. E non possiamo
neanche giocare la magra consolazione di prendercela con il governo,
‘ladro’ per definizione: le poltrone sono da tempo vacanti, come quella
del presidente della repubblica che si sta giocando proprio in queste
ore in una serie di deja vu. Ma lasciamo la poca cosa del teatrino della
politica per incamminarci verso il teatrino della Bicocca che ha deciso
per la terza di ospitare un nostro spettacolo a fin di bene. Questa
volta il ricavato non andrà ai bambini delle favelas brasiliane, ma al
più vicino pavimento dello spazio ricreativo dei milanesi “diversamente
giovani”, che tra queste quattro mura trovano compagnia e sollazzo.
Arriviamo a destinazione stropicciati dall’umidità dopo aver caricato il
camion guadando pozzanghere che ricordavano il delta del Mekong,
fortunatamente bonificato da ogni belligerante velleità. Ad accoglierci
barricate di auto di cresimandi ed affini che ci impediscono di
raggiungere il teatro, che per un’ora circa resta un lontano miraggio e
che concedono al nostro tecnico un salutare riposino coccolato dal
costante e ritmato ticchettio della pioggia. Chi preferisce pigliare
pesci, invece, fantastica su come potrebbe essere composta la
scenografia sul piccolo ma accogliente palcoscenico del teatro,
scoprendo che ogni congettura possibile sarebbe stata screditata dai
fatti.
L’allegro e disteso suono delle campane avvisa il quartiere che la
cerimonia è finita e noi che un varco si è aperto, scoprendo solo ora
che il proprietario dell’auto era il figlio dell’imbarazzato tecnico del
teatro che non se l’è sentita di impallare il vescovo durante la
cerimonia per chiedere le chiavi del mezzo. Il camion con qualche
difficoltà, ci si infila senza lubrificanti e siamo pronti a montare,
sotto un cielo ancora gonfio d’acqua ma che decide di darci tregua.
Le dimensioni del palcoscenico ci costringono ad una serie di peripezie,
con pannelli che volano a destra e a sinistra prima di trovare una
definitiva collocazione intorno alla necessaria finestra, epicentro
della nostra scena, con il compromesso, necessario sacrificio, di non
utilizzare l’apertura del sipario. Solo qualche difficoltà nel montaggio
delle tende ci costringe a rinviare l’attività all’arrivo del nostro
mister IKEA, che in cinque minuti umilia tutta la nostra fatica ed
inettitudine.
Serata di tagli. Questa sera va in scena un inedito Allegri Chirurghi,
condiviso ed alleggerito di qualche passaggio importante nelle prime
pagine del testo e di qualche battuta qui e la nel seguito, con lo scopo
di renderlo più scorrevole, non tanto nella durata (scopriremo di aver
spazzato via circa dieci minuti) quanto nella sensazione di essa. E
allora dedichiamo i pochi istanti prima della cena a mettere a fuoco i
nuovi stralci e a fare qualche prova audio per microfoni e telecamere
che ingabbieranno il nostro spettacolo su un paio di dvd. Fino a
scoprire che sono rimasti all’asciutto, negli armadi di casa : il
vassoio porta dolcetti, il cappello di Peter Pan e il nostro regista
(che oggi ha preferito il sole di Madrid alla pioggia di Milano).
Un’eco di stomaci che brontolano avvisa che è ora di pappa. Ma lo
sguardo sorpreso e impacciato dei nostri ospiti spegne ogni speranza :
la cena è prevista dopo lo spettacolo come nelle migliori tradizioni
attorali. E noi, che rispettiamo solo le tradizioni che si possono
affrontare a pancia piena, elemosiniamo almeno un pasto freddo, anche in
piedi, pur di mettere qualcosa sotto le ganasce, dimenticando e
rinunciando ad una Amatriciana che, nelle migliori tradizioni della
cucina degli amici del Bicocchino, sarebbe stata indimenticabile.
Degni sostituti sono qualche fetta di un ottimo salame, un roastbeef che
agli occhi dei vegani presenti gronda ancora sangue, una ricca insalata
che Leslie depreda di tutti i rapanelli di cui ne va ghiottissimo, una
macedonia multicolor e multisapor e, ciliegina sulla torta, il dolce
nostrano preparato da Mike per festeggiare il suo ennesimo compleanno, e
che dobbiamo divorare tutto per recuperare il vassoio che, impreparato,
dovrà entrare in scena per por rimedio alla dimenticanza.
Il tempo è però agli sgoccioli. Il caffè ci viene servito, raro
privilegio, direttamente ai piedi del palcoscenico ed inizia la volata
verso l’apertura del sipario, che oggi sarà solo metaforica.
Ci vestiamo nel poco tempo e spazio che abbiamo. E mentre i primi
avventori, vedendo la scenografia, solo per un attimo credono di aver
sbagliato destinazione frugando nella borsa alla ricerca di improbabili
tesserini sanitari, valutiamo l’ipotesi di non truccarci. E l’ipotesi
diventa certezza quando scopriamo che anche i trucchi sono rimasti a
casa (o, ma è una illazione, hanno seguito il nostro regista con compiti
che preferiamo non approfondire). Scaldiamo velocemente la voce sotto le
assi del palcoscenico, regalando al pubblico già presente in sala,
strani beccheggi della voce e l’idea che lo spettacolo possa essere un
musical mal cantato. E dopo una breve e poetica introduzione, si parte.
Lo spettacolo scorre veloce, senza intoppi. Poche sfumate incertezze,
quasi impercettibile anche a noi, accompagnano qualche nuovo taglio e ne
aggiungono involontariamente di altri. Il cappello del prete (non taglio
di carne ma oggetto scenico) che sostituisce l’obliato Peter Pan,
scaraventa sulla scena per pochi secondi un improvvisato e divertente
Zorro. E così si galoppa, fino alla fine, accompagnati da un pubblico
coinvolto in un costante crescendo di calore e risate. Alla fine i
commenti non solo ci regalano la sensazione di aver ben operato i nostri
tagli, ma anche la certezza, da parte degli aficionados, di aver
interpretato il miglior spettacolo della serie, contrariamente alla
sensazione decisamente opposta di alcuni di noi.
Rubando un po’ la scena al nuovo (?!?!?!) presidente della repubblica
appena eletto, ci gustiamo i nostri applausi calorosamente scanditi da
un pubblico che il maltempo ha reso poco meno numeroso del solito.
Brindiamo a fine spettacolo con un millesimato offerto
dall’organizzazione ed accompagnato dalla loro gradita e discreta
compagnia. Si perdono il brindisi le ragazze del gruppo che, ordinati
gli oggetti di scena nelle rispettive scatole, hanno fretta di scappare,
solleticando la fantasia di qualcuno che questa assenza arricchisce e
velocizza smontaggio e carico. Ma è solo il piacere di una serata
speciale che rende tutto più leggero.
Un sms riassume e catapulta questa sensazione nella notte calda e serena
di Madrid del nostro regista.
Carugate
- 9 e 10 marzo 2013
Spettacolo a
chilometri zero in quello che abbiamo misticamente ribattezzato “il
triduo”.
Due giorni. Tre spettacoli. A casa nostra. Di fronte al nostro pubblico.
E il giorno del debutto è arrivato: sabato 9 marzo. Debutto che abbiamo
preparato con cura rodando lo spettacolo in una serie di anteprime che
ci sono servite per ponderare e oliare ritmo e caricatura, anche se,
paradossalmente, al momento lo spettacolo a detta di tutti ancora più
riuscito è stato il primo!
Risparmiato il peso del montaggio (fucina di aneddoti e risate) che
abbiamo diluito durante la settimana, ci troviamo a reinvestire il tempo
libero nella gestione di telefonate del pubblico dell’ultim’ora che
vuole accaparrarsi improbabili posti di uno spettacolo che è da giorni
tutto esaurito, in una perenne maratona tra camerini, palco e foyer.
Interrotta solo da :
- una posa per la stampa che ci dedicherà un pezzo in una prossima
edizione del giornale locale, messo subito a rischio da una innocente
battuta del nostro Leslie alla giornalista-calciatrice che gli ha
interdetto l’accesso agli spogliatoi nel caso giocassero nella stessa
squadra.
- un frugale panino consumato in cerchio come nella più perfetta
tradizione nomade (ma non sono forse nomadi gli attori?) dove ci
rilassiamo scaldando i muscoli facciali tra morsi e risate.
- la presentazione alle costumiste del nuovo abito del Dott. Mortimere,
direttamente dalle ante di tale Miccio, che debutterà questa sera e che
le costumiste decidono di accendere con una cravatta di un intenso rosso
rubino.
- una sfilata con una serie di nuove parrucche, lascito di chi, mosso a
compassione dalle ormai troppe nudità tricologiche che ci affliggono, ha
voluto suggerirci un efficace rimedio e che per un attimo riportano
sulla terra i cugini di campagna
Poi si inizia a fare sul serio. L’agitazione prende il posto della
goliardia. Siamo di fronte al nostro pubblico e questo, invece di
tranquillizzare, agita gli animi. Riponiamo le parrucche sulle
impassibili teste di polistirolo che per due giorni ci osserveranno come
impassibili spettatori, mentre gli altri, quelli veri che ci auguriamo
meno impassibili, entrando in teatro possono
ripercorrere le tappe dei nostri
successi condensati in una vetrinetta tutta nuova e tutta nostra che più
che autocelebrare vuole lasciare una umile traccia del nostro girovagar
teatrale.
Ci prepariamo ed andiamo a respirare il vociare che arriva da platea e
galleria gremite e solo in parte mitigato dal pesante sipario chiuso.
In cassa, un gruppetto di potenziali spettatori, quasi si azzuffano per
aggiudicarsi i troppo pochi posti liberati da prenotati che non si sono
presentati, costringendoci così a rispedire a casa una ventina di
persone.
Poi le luci si spengono. Il brusio scema. Lo scricchiolio della scaletta
di metallo anticipa di un soffio la presentazione dello spettacolo da
parte di un regista più emozionato di noi che con voce rotta ci regala
ancora qualche attimo di attesa. E di batticuore.
Una storiella che con voce monotono (probabilmente scritta da Elio)
viene raccontata dallo sponsor della rassegna rischia di farci perdere
qualche spettatore. Ma è breve, e il pericolo è scongiurato.
Scricchiolio della scaletta. Questa volta al contrario. O è la schiena
di Rosemary Mortimere a scricchiolare?
Musica. E il sipario si apre su una sala senza spazi vuoti. E quei
pochi, riempiti da telecamere e fotografi che si muovono silenziosi a
fermare momenti che ancora non sappiamo se saranno ricordati come belli
o meno.
Ma lo spettacolo va. Qualche sbavatura recitativa che il generoso
pubblico non ha notato o su cui ha sorvolato, non compromettono uno
spettacolo ben tenuto e sostenuto, sempre sostenuto, da tante risate ed
applausi a scena aperta, che ci regalano quella tranquillità e quella
sicurezza che ci danno il pieno (o quasi) controllo della situazione.
E alla fine siamo tutti soddisfatti.
Un doveroso e dettagliato ringraziamento, come mai facciamo, a tutti ma
proprio “tutti quelli che hanno contribuito al buon esito dello
spettacolo”. Poi, mentre gli attori sfilano in sala a guadagnare il
foyer portando per un momento a Carugate la settimana della moda, il
nostro enologo di fiducia racconta la macedonia di profumi e sapori del
vino che vogliamo offrire al pubblico, in un brindisi che vuole
ricambiare il suo calore e insieme festeggiare i nostri 30 anni di vita.
“A buon bevitor poche parole, e quelle poche… sbiascicate”. In men che
non si dica quindi le due anime, quella del pubblico e quella degli
attori, si mischiano nel gremito foyer, dove i pochi gradi del moscato
sciolgono chiacchiere e complimenti, intensi e sinceri.
Che sono benzina per affrontare le repliche di domani.
Domani che arriva in un attimo. E in un attimo siamo di nuovo in scena.
Neanche il tempo di entrare in teatro, trovare la sorpresa di mamma Myra
che ha portato la piccola ad annusare le assi del palcoscenico (dicono
che gli odori che ti arrivano nei primissimi mesi di vita segneranno il
tuo destino) e ci ritroviamo gli abiti di scena addosso ed una fila
interminabile alla cassa.
La pomeridiana non aveva avuto troppe prenotazioni, ma la risposta degli
ultimi avventori è stata maestosa. Tante famiglie e un pubblico molto
giovane hanno quasi riempito la sala anche per questo spettacolo,
costringendoci a ritardare l’apertura del sipario.
Ma la tranquillità di una pomeridiana ce la siamo giocata quando la
commissione della FITA Milano ha deciso di inserire questo spettacolo
nel concorso omonimo. D’obbligo quindi concentrazione e tecnica e
mestiere. Come ogni spettacolo merita e come la situazione impone.
Ci riusciamo? Lo scopriremo alla chiusura del concorso. Sicuro è che il
pubblico in sala è stato meraviglioso. Dall’inizio alla fine. Risate ed
applausi come mai sono galoppati sul palcoscenico e ci hanno travolto
con la loro irruenza e fragranza. Spesso inaspettati. Costringendoci ad
improbabili “fermo immagine”.
E anche il nostro regista, che sempre ci ha seguito dalla sala, ha
incoronato questo come miglior spettacolo, spodestando il debutto di
Cantello. Poteva andare meglio?
C’è giusto il tempo di una pizza in atrio accampati alla bene e meglio
cercando di non macchiare gli abiti di scena che la pigrizia ci ha
lasciato indossati e coperti in qualche modo, circondati dai figli degli
attori che in questi giorni si sono trasferiti in teatro a scorrazzare
tra scenografia ed oggetti di scena, e fantasticando su improbabili
amene versioni del lontano "Dio che meraviglia" e del più recente "Ali
di carta" (svelando, tra l'altro, il mistero delle lacrime della
narratrice), prima di affrontare l’ultimo
spettacolo della “triologia”, come la definirebbe il nostro Leslie.
L’ostacolo da superare qui è la stanchezza e la voce provata da troppe
battute.
Ci affidiamo al solito a San Genesio e si riparte per l’ultima fatica.
Ma il freno è tirato. Non da noi, ma da un interminabile intervento del
presidente della onlus che con questo spettacolo abbiamo deciso di
sostenere. Trenta minuti di conferenza con dettagli tecnici e
particolari di gestione che forse, se divisi in due atti, sarebbe stata
sicuramente più digeribile ed avrebbe forse evitato un deciso applauso
di uno spettatore che ad un tratto ha provato a frenare la catarsi
oratoria del microfonato con un gesto che però non ha sortito l’effetto
dovuto.
E così lasciamo i nostri posti di battaglia e sul palco improvvisiamo
improbabili attacchi definitivi alla voce che, davanti al sipario, per
noi è solo un suono senza volto.
Poi, un sospiro di sollievo che non sentiamo ma immaginiamo, accompagna
l’abbassamento delle luci. E le successive due ore si srotolano in uno
spettacolo perfetto per ritmo e memoria, sporcato solo da qualche
sbavatura di gesto e posizione, con crampi sempre in agguato, la schiena
di Rosemary ormai al limite del cedimento, i lividi della caposala Flint
che si sommano nelle cadute che la scena impone, e la rincorsa al
carrellino-porta-flint che la foga dei ragazzini ha fatto sparire sotto
le pedane e il passo del leopardo di Leslie ha recuperato in extremis.
Ma sempre, doveroso ripetere, sostenuto da un pubblico che non ha perso
d’intensità per tutto lo spettacolo.
Al termine non abbiamo il tempo di godere della gioia e della fatica.
L’attore deve lasciare il posto al tecnico. E così, dismessi i sudati
abiti di scena si smonta e si carica, spogliando un palco che in questi
due giorni è diventato la nostra casa regalandoci sane soddisfazioni e
confermando un impeccabile gioco di squadra che ha permesso di gestire
tutto, è il caso di dirlo, con precisione chirurgica.
Torino
- 23 febbraio 2013
Spauracchio
neve. Abbiamo ancora negli occhi, nelle gambe e nelle ossa l’epilogo
dello spettacolo di Rivoli, cerchia di Torino, che circa un anno fa ci
ha costretto a numeri da circo prima di arrivare a casa sani e salvi, ma
provati.
Il tempo indeciso di questi giorni, che alterna sporadiche e intense
nevicate a tregue incerte, non lascia intuire nulla di buono. E il
giorno dello spettacolo al Teatro Monterosa, triste presagio anche nel
nome, sembra voglia giocare con le nostre ansie alternando sole a neve e
poi ancora, tranquillizzante, un misero sole che le nostre paure
trasformano in caraibico.
Giro veloce di telefonate per scongiurare il fatto che qualcuno,
sull’onda dell’entusiasmo, si presenti in costume da bagno, e si parte,
sparsi, a percorrere il rettifilo che collega le due capitali
industriali del nord. L’appuntamento è ai piedi della sfinge,
all’ingresso della città, simbolo che solo per un attimo ti fa pensare
di aver sbagliato destinazione. Ma basta andare oltre con lo sguardo che
gli alti palazzi ci riportano subito ad orizzonti nostrani: siamo a
Torino (anche se le persone che incontriamo per le strade potrebbero
avvalorare l’ipotesi egiziana).
Il montaggio delle scene è ancora una volta liscio, come il miglior olio
extravergine prima spremitura. Solo il rischio per Bobo di essere
travolto dalle scenografie sul camion che si sono ribellate al suo
puntello e un piccolo inconveniente durante il
trasbordo della scrivania, peraltro ampiamente annunciato nei precedenti
spettacoli da chiari segnali di precarietà purtroppo sottovalutati, vede
volare un cassetto metallico a terra con conseguente ammaccatura, che i
nostri tecnici riescono a rimettere in forma a suon di martellate,
facendo inorridire tutti i carrozzieri della zona richiamati dal rumore
di lamiere accartocciate e accorsi prontamente per intervenire con
stucco e vernice a forno.
La pendenza del palcoscenico, finora la maggiore per questo spettacolo,
non ci crea problema, solo qualche attenzione in più nel fissare i
pannelli e con abbondante anticipo sulla cena (conferma: questa è
davvero la scenografia perfetta) tutto è pronto.
Giusto il tempo per incassare un freddo ed irreversibile ‘no’ dalla
signora al botteghino di fronte al tentativo di far riservare dei posti
per un gruppo di amici che venivano da fuori, per poi rivalutarne la
gentilezza nell’indicarci un posto dove andare a mettere le gambe sotto
il tavolo.
E mentre ancora echeggia nell’aria la litigata di Bobo con un barista
della zona che non gli ha voluto servire un cappuccino perché avrebbe
chiuso di li ad un’ora ed aveva già spento la macchina, confermando
peraltro l’idea di ospitalità già ampiamente radicata nel nostro, ci
dirigiamo lemme lemme verso la pizzeria. Nuova meta rispetto alle altre
abbondanti volte che abbiamo frequentato questo teatro. Il ‘solito
posto’ apre i battenti troppo tardi per le nostre esigenze di orario e
così cadiamo in piedi in questo nuovo locale dove fa un po’ freddo ma la
pizza è mediamente buona e la pasta di una gustosa e rara croccantezza.
E mentre la bigliettaia del teatro ci perseguita comparendo minacciosa
in pizzeria, forse per verificare se davvero avevamo seguito i suoi
consigli, gustiamo i racconti di Leslie, che ci spiega la sua idea di
politica a cinque stelle e ci srotola la “grossa mora” di lavoro che
deve affrontare tutti i giorni. Ma la lucidità della sua esposizione
riceve qualche contraccolpo quando il lato B della cameriera entra
prepotentemente nei suoi pensieri annientando il resto. Gli ormoni hanno
il sopravvento sui neuroni e tutto diventa confuso e incomprensibile
(sinonimo, in questo caso, di irripetibile).
Torniamo verso il teatro, con una forfora lieve che cade dal cielo ad
imbiancare le nostre spalle e ad irrigare le nostre ansie, senza però
intaccare l’adrenalina pre spettacolo.
Ci prepariamo a ritmo ridotto, abbiamo tempo, mentre la platea si
riempie, tutta, ma la galleria resta vuota, tutta, a confermare la crisi
di pubblico che ha colpito anche questo teatro e che ha costretto a
ridurre ad uno spettacolo una rassegna che fino allo scorso anno
prevedeva almeno un bis.
Per fortuna in sala non c’è il barista che riconoscendo Bobo avrebbe
potuto replicare il Sanremo di Crozza. Partiamo quindi senza
distrazioni. Che si alzi il sipario.
E il sipario, che non si alza, si apre di lato su uno spettacolo con
troppe distrazioni, che alterna scene perfette per ritmo e recitazioni a
vuoti quasi impercettibili ma per noi eterni, che spezzano ritmo e
concentrazione.
Arriviamo alla fine senza comunque calare di ritmo e verve nonostante la
misteriosa sparizione dell’orecchino di Leslie ed un movimento falso del
ginocchio della caposala Flint che, speriamo, si limiti solo al dolore e
non si trasformi in una ricaduta.
Il pubblico ci accoglie alla riapertura del sipario con sinceri applausi
di apprezzamento, che, solo loro, spiegherebbero al barista che tutto
sommato un cappuccino avrebbe anche potuto metterlo in macchina!
Li blocchiamo per dedicarli a regia e tecnico e trasformarli in nostri
per ingraziare un pubblico caloroso e una squisita accoglienza, oltre
che un gradito ritorno.
Era la prova del pubblico di città, tendenzialmente più sofisticato e
spesso più freddo verso testi con meno spessore, anzi… come dire…
piatti. Beh… superata!
Si carica il camion in modalità mono-nota, evitando, a fatica con il
buio, i simpatici pensierini (a volte veri e propri temi) lasciati a
terra dagli amici a quattro zampe, che solo il nostro Bobo decide di
portare a casa (qualcuno giura di aver visto un barista al guinzaglio
aggirarsi nella zona).
Partiamo con la luna nel cielo ma gli ultimi chilometri, per fortuna
solo gli ultimi, li percorriamo sotto una nevicata che si fa sempre più
abbondante. Il giorno dopo ci svegliamo scoprendo un cielo che si è
sfogato imbiancando tutto. Ma questa volta siamo arrivati prima noi.
Adesso ci aspetta il debutto ufficiale. Il triduo di Carugate dove il
nostro pubblico, non ce ne vogliano gli altri, è forse più facilmente
corruttibile, ma ha comunque peso specifico maggiore.
Castelverde
- 26 gennaio 2013
Si torna a
Castelverde. Come spesso succede chi ci ha ospitato una volta ha piacere
di avere sulle sue assi anche i nostri successivi spettacoli. E così
anche alle porta di Cremona si firma “el triplete”. Dopo LA CENA DEI
CRETINI e RUMORS, ora tocca al nostro nuovo spettacolo, che il Teatro
Primo Ferrari ha concordato con noi di ospitare praticamente al debutto.
Il carico è agevole. Movimenta il lavoro solo il nostro regista, che
lascia inavvertitamente le dita sotto un pannello e rischia
l’amputazione secca delle prime tre falangi. Ma tutto sommato è il male
minore: lui non deve andare in scena…
Il lungo viaggio nella bassa è riscaldato da un bel sole,
inaspettatamente caldo.
A destinazione, complice il facile accesso ad un palcoscenico
praticamente “in bolla”, il tempo di scaricare e la scena è montata,
facendoci finalmente apprezzare, dopo aver rodato la mano nei primi
spettacoli, la forza di questa scenografia : agile da caricare, veloce
da montare.
Investiamo l’oretta di tempo che ci avanza chi a ripassare chi a giocare
on line chi a reclamare con voce lontana e ritmo cadenzato esigenze
ataviche e primarie : “andiamo a mangiare?”
Mediamo le esigenze di tutti e alle 18.30, con le galline (come si dice
da queste parti) mettiamo le gambe sotto il tavolo nella solita pizzeria
da asporto che ci ha ospitato anche nelle precedenti trasferte. Ma Maria
Pia, la titolare, gela subito i nostri entusiasmi: l’orario in cui
verrebbero pronte le nostre pizze è incompatibile con il nostro. Attimo
di panico che scorre negli occhi degli attori, particolarmente
accentuato nel Professor Willoughby, buongustaio del gruppo, che non
sfugge alla titolare che gioca la carta dell’accoglienza cremonese
offrendoci, in alternativa, panini o piatti di gastronomia esposti in
bella vista e che ancora non avevamo colto.
E così, aumentata la salivazione alla luce della nuova prospettiva, sul
nostro tavolo vediamo sfilare panini pantagruelici che avrebbero sfamato
una famiglia di 4 persone, lasagne, baccalà fritto e quattro pizze
filanti che Maria Pia ha estratto chissà da dove. Tutti si lamentano
delle porzioni enormi. Alla fine non avanzerà nulla.
Ringraziamo Maria Pia e i suoi colleghi per la simpatica accoglienza e
torniamo in teatro dove abbiamo tempo di prepararci con calma in un
camerino che è l’anticamera del Polo Nord. Decidiamo così di
appropriarci ciascuno di un angolo di palco (con temperature
primaverili) e cambiarci li.
La sala va riempiendosi. Da dietro il sipario ci arrivano voci sempre
più numerose. E la tensione incomincia a salire. Senza alcun preambolo,
alle 21.15 spaccate, come da programma di sala, il sipario si apre su
una compagnia che oggi, in scena, ha un attore in più: l’influenza.
David e Mike sono febbricitanti e il sergente ha forti dolori per una
contrattura ad una spalla. E lo spettacolo, così, parte trattenuto,
distratto dal timore di non farcela con la testa o la voce, con le tante
aspirine che ancora frizzano nello stomaco, e con un ritmo, viziato da
una recitazione un po’ troppo a soggetto, che stenta a decollare.
Ma giusto il tempo di prendere fiducia nei nostri mezzi, di sentire il
pubblico dalla nostra, e lo spettacolo decolla, per ritmo e
interpretazione, e la sala si riempie di risate ed applausi che non se
ne andranno fino alla fine dello spettacolo, facendoci dimenticare le
incertezze di un momento.
I ringraziamenti finali del pubblico pagante sono davvero sinceri, e li
portiamo soddisfatti a casa con noi, contenti di essere riusciti a
mettere in scena , nonostante tutto, un ottimo spettacolo. Giusto il
tempo di un brindisi per festeggiare l’ennesimo anno compiuto da David
(ma non chiedetegli l’età! Non si chiede l’età alle signore!) e poi via
sulla rotta di casa brandendo coltelli a tagliare una nebbia a tratti
fittissima.
Birone di Giussano
- 12 gennaio 2013
Primo
spettacolo del 2013. Ci servirà per misurare quanto il panettone delle
feste possa incidere sulle nostre performance, dopo un paio di prove
preparatorie più gogliardiche che tecniche.
Il carico del camion, giusto per iniziare, si dimostra ancora oliato e
puntuale e tutto si incastra alla perfezione senza contrattempi. La
strada che ci porta a destinazione è breve e offre diverse alternative.
E ogni equipaggio ne segue una diversa. Neanche a dirlo. La percorriamo
a memoria: è la terza volta che torniamo sule assi di questo
palcoscenico.
Arriviamo a destinazione e troviamo l’organizzazione a spazzare il
palcoscenico regalandoci un privilegio che poche volte abbiamo potuto
apprezzare. Anche lo scarico è agevole, si passa dal camion al palco in
un soffio. Il montaggio… un po’ meno.
Il palcoscenico è largo, sì, ma… basso. E nel punto in cui una trave di
cemento armato attraversa il palcoscenico in tutta la sua larghezza…
troppo basso! Del resto se il teatro si chiama “Il ridotto” ci sarà pure
una ragione. Passiamo così più tempo a studiare come dividere la
scenografia in due (fronte e retro) senza comprometterne stabilità e
funzionalità che a montare poi il tutto. Il risultato non risente del
sacrificio. Anzi, il basso soffitto sembra valorizzare e rendere più
vero e naturale l’ambiente ricreato.
I camerini, in perfetto stile Stevenson, hanno una doppia vita : di
giorno spogliatoi per i gladiatori del calcetto, di sera camerini per i
meno cruenti teatranti, e così, aspettando il nostro turno, a montaggio
e ripasso concluso, si passa al cibo.
Ci aspetta quella che credevamo essere la ormai solita pizzeria da
asporto che tradizionalmente ci metteva a disposizione due botti che
arredano il locale per consumare con dubbia comodità il nostro pasto
frugale. Le botti sono rimaste, la pizzeria un po’ meno. Ha cambiato
gestione. Oltre alla pizza (mangiabile), offre kebab e fritto misto
(pesante e pericoloso) e l’odore di unto che resterà indelebile sui
nostri abiti.
Per non farci mancare nulla, beviamo il caffè nel locale attiguo, un
accozzaglia di dolci e pupazzi e colori di ogni genere dove completano
l’opera iniziata dalla pizzeria le ‘stantuffate’ di odore di vecchio
(per dirla alla Angelo).
Resta solo il tempo di prendere possesso dei camerini e andare in scena.
La sala è piena e scalpita.
Segreghiamo il nostro regista a ruolo di siparista e lo imprigioniamo,
moderno conte di Montecristo, in un angusto antro cieco ricavato tra
scenografia e armadietto della tecnica: impossibile l’evasione (lo
ritroveremo stupiti poi, a metà del primo atto, disinvolto dietro le
quinte: una cena non proprio salutare gli ha fatto scoprire doti innate
di ginnasta che gli hanno permesso di scavalcare a piè pari le barricate
erette dal nostro tecnico per lasciare il sipario e correre a cercare
urgente sollievo altrove).
Si parte.
Ritroviamo il ritmo del debutto ed una buona presenza scenica. Presto il
pubblico è con noi, sul palcoscenico. Lo sentiamo denso e avvolgente:
presente. E le risate e la partecipazione (che in alcuni punti arriva a
viva voce ad anticipare le battute degli attori) non ci lasceranno più,
fino alla fine. Anche quando, in un paio di occasioni, le imbeccate
previste dal copione che dovevano giungere da dietro le quinte, tardano
un po’ troppo ad arrivare, forse intontite e rallentate dall’odore della
pizzeria ancora stagnante nell’aria.
Lo spettacolo si chiude con uno scrosciante e sincero applauso che, come
tutti i teatri di Italia hanno fatto in questi giorni, abbiamo voluto
ufficialmente condividere con chi il teatro lo ha fatto credendoci
davvero e da qualche giorno non c’è più.
Si smonta con addosso la pienezza di aver messo in scena un buon lavoro,
rallegrati dagli eredi di alcuni dei protagonisti che si rincorrono sul
palcoscenico con le parrucche di scena addosso e con la volontà di
migliorare quelle sbavature che ora possiamo affrontare più serenamente.
Un saluto agli organizzatori annaffiato da un buon vino e dalla eterna
spuma nera. E qualche sfizio dolce e salato che riesce a mettere qualche
pezza alla cena delle puzze.
Calusco D'Adda
- 30 novembre 2012
Neanche una
settimana e siamo a ripetere il nostro nuovo spettacolo. E’ venerdì, e
ce lo ricorda incessantemente il nostro tecnico che sa di come le nostra
performance sono meno incisive quando si va in scena in settimana. E
qualcuno racconta la maledizione del “Friday Theatre” dove la leggenda
vuole che i folletti del teatro, quando si va in scena di venerdì, fanno
di tutto per molestare e distrarre gli attori per fare in modo, con i
loro dispetti, che qualcosa non vada per il verso giusto (realtà o
fantasia?).
Si parte sotto un cielo pesante più tardi del solito. Mettiamo così
subito alla prova, e apprezziamo, la velocità e comodità di montaggio
della nuova scenografia con cui oggi ci accorgiamo subito di avere già
dimestichezza, grazie anche alla preziosa presenza di Andrea che, uomo
di fiducia di Meme, vale almeno 10 attori. E dalla sacrificata
bomboniera di Cantello, dove la scenografia è stata fatta entrare a
martellate, ci troviamo catapultati nella piazza d’armi di Calusco,
dove, per dare alla scenografia degna presenza, dobbiamo disporla il più
in orizzontale possibile ed aggiungere anche i due pannelli di scorta
che la previdenza di Meme ha fatto confezionare dai falegnami in zona
Cesarini.
Con calma facciamo il puntamento luci e mastichiamo il nostro pranzo al
sacco. Abbiamo tempo. Tanto di quel tempo da dimenticarci di rifinire i
nuovi pannelli che andranno in scena senza i dettagli degli altri (ma
quando ce ne accorgiamo c’è già gente in sala e non si può più trapanare
ed avvitare).
Con calma ci vestiamo e trucchiamo e per una volta evitiamo al nostro
tecnico i rimproveri ed i solleciti a prepararci, rubandogli, persino,
una nota di stupore. In sala, oltre ad un numeroso pubblico (per buona
soddisfazione dell’organizzazione) anche amici e parenti del GTT che, a
rate, stanno assistendo alle prime repliche di questo nuovo lavoro che
debutterà a Carugate solo a Marzo.
E ci accorgiamo di essere più tesi e preoccupati della volta scorsa.
Quasi nervosi. Anche se gli amici di Calusco hanno fatto di tutto per
supportarci con il solito calore e simpatia a cui ci hanno abituati nel
tempo.
Si parte. Un po’ con il freno tirato, nei primi minuti, ma presto, molto
presto, torniamo a rivestire attillati i nostri personaggi, e dare brio
e ritmo alla commedia con una consapevolezza e una cura ancora migliore
del debutto. E il primo atto fila tra le risate che mai si
affievoliscono e gli applausi del pubblico.
Giusto il tempo di tirare il fiato, fare il punto sulle poche sbavature,
e il sipario (eterno nel coprire le distanze da quinta a quinta) si
riapre sul secondo atto. E se fino ad ora i folletti del Friday Theatre
erano probabilmente impegnati su qualche altro palcoscenico, ora si
ricordano di noi e obbligano Rosemery Mortimere ad una partita a carte
dietro le quinte proprio nell’istante esatto in cui deve entrare in
scena trascinandosi a ruota il professor Willoughby, che manco a dirlo,
preferisce la bisca al palcoscenico. E così il sergente si trova a dover
padroneggiare la scena inspiegabilmente vuota e a stupirsi del repentino
e scoordinato ingresso di Geraldina-Hubert che si sarebbe dovuto/a
materializzare solo un paio di facciate dopo... Da lì in poi lo
spettacolo scivola via liscio, tra penne che partono a ricordare le lame
rotanti di Goldrake e funamboliche arrampicate del sergente a
ricostruire battute pericolosamente mischiate dai soliti folletti, fino
all’entusiastico applauso del pubblico alla riapertura del sipario che
inonda noi e il nostro regista che qui ha visto anche debuttare la sua
commedia.
Una risata liberatoria a ricordare quanto successo, un brindisi a
festeggiare Roberto che oggi compie gli anni con noi, un panino offerto
dagli amici di Calusco, il sigaro di cioccolato che ci offre Silvia per
addolcirci la bocca, una gongolata sui numerosi apprezzamenti del
pubblico che ha voluto materializzare lasciandoci molti commenti
scritti, il carrellino di Valentina che si trasforma in un irresistibile
slitta su ruote per i bambini accorsi sul palco. Si smonta veloce e si
torna a casa. Soddisfatti. Sotto una pioggerellina fitta e fredda che
sembra neve.
Cantello
- 24 novembre 2012
Oggi il
nostro nuovo spettacolo emetterà i suoi primi vagiti. Ma i gesti che li
precedono sono i soliti. Si deve caricare il camion. Che li rende
diversi è la pioggia. Strano a dirsi: non c’è! E i presenti. Bello a
dirsi agli attori si aggiungono tanti componenti che in questo
spettacolo non sono in scena ma che non vogliono perdersi l’evento.
L’appuntamento non è al solito posto ma in teatro, che ha sopportato le
ultime tre settimane di prove.
Tra un pannello e un “ciao” smontiamo, imballiamo e carichiamo la
scenografia del nuovo lavoro. Sono tanti i curiosi amici conoscenti
ex-teatranti passanti che chiedono incoraggiano curiosano invidiano
sorridono al nostro debutto.
E così, dopo aver trovato velocemente la giusta combinazione per
incastrare la troppa scenografia sul camion che assomiglia sempre di più
a un cargo della speranza piuttosto che ad una attrezzeria teatrale,
sulla scia di una raffica di auguri di una ex-suocera del gruppo che
impongono l’appello all’autodifesa con altrettanta raffica di gesti
scaramantici, ci si imbarca.
Destinazione : Cantello, la patria dell’asparago bianco, che ha già
ospitato i nostri precedenti spettacoli e che sin da subito si è detto
felice di ospitare amichevolmente il nostro debutto.
Arriviamo a destinazione con la bruma dell’autunno che fagocita le
ultime ombre del giorno.
La nuova scenografia è tanta ma è agile da muovere e montare. E così,
pezzo dopo pezzo, ricomponiamo il puzzle con un po’ di improvvisazione e
con qualche ritocco rispetto al disegno originale riuscendo ad
incastrarla tra le strette pareti del palco del Pax. Dietro le quinte
resta lo spazio strettamente necessario alle manovre per entrare in
scena, e così siamo costretti anche a qualche forzatura scenica,
sacrificando la troppo ingombrante barella con la più agevole sedia a
rotelle, con un risultato comunque apprezzabile e che potrebbe essere
quello definitivo.
A fatica fissiamo ad un paio di pannelli la segnaletica ospedaliera che
dolcemente tende a scivolare verso il pavimento, dando ragione ad un
Newton che vinciamo solo con le solite 4 viti, panacea di tutte le
scenografie, e che aggiunge una macchia di colore alla già colorata
scenografia.
La ammiriamo. Soddisfatti. Un bel colpo d’occhio. Se non fossimo in
teatro sembrerebbe davvero di essere in un ospedale.
Ma il tempo corre inesorabile e dobbiamo ancora mettere a fuoco qualche
quadro. E così mentre i supporters cercano per Cantello un po’ di cibo
(freddo o caldo va bene uguale) proviamo i passaggi d’insieme più
complessi e l’uscita sugli applausi, che inventiamo al momento e che il
guizzo di Meme rende spettacolare suggerendo l’uscita dei three-doctors
dalle tre ante della finestra: chiamiamola “l’estetica del tecnico”.
Presi dalla frenesia del momento ancora non ci rendiamo conto
dell’imminente debutto, con l’ansia da prestazione forse mitigata dal
fatto che consideriamo lo spettacolo di questa sera più una prova
aperta, dove tutto può essere scusato, che uno spettacolo vero e
proprio.
Un boccone veloce a base di salumi e clementine con il palcoscenico che
fa da tavola.
Ci addolciamo la bocca con dei muffin belli e buoni che la disoccupata
Claire ha portato per festeggiare l’evento decorati con i simboli
evocativi dei temi della commedia (cerotti, siringhe, bisturi e
cardiogrammi) e poi si parte.
Indossando gli abiti di scena la consapevolezza comincia a prendere il
sopravvento. I movimenti si fanno ora più tesi. I volti, truccati, si
tirano.
Man mano che il pubblico affluisce in sala (molto più di quello che ci
aspettavamo di richiamare) sale la sensazione che si va davvero in
scena. Che questa sera si fa sul serio. E ad una velocità che non siamo
in grado di dominare ci troviamo con le note di Benny Goodman che
anticipano di un soffio l’apertura del sipario.
E come per magia ogni cosa trova il suo posto. La tensione si trasforma
in carica ed energia che da il giusto tempo a ritmo, caratterizzazione,
memoria, mimica, interpretazione. E il pubblico entra velocemente nella
storia, sale sul palcoscenico con le sue risate ed i suoi applausi -
benzina per la nostra recitazione - e non ci lascia più.
Divoriamo estatici ed entusiasti gli applausi che ci inondano alla
riapertura del sipario e che travolgono il nostro regista che ha spiato
il pubblico in sala per tutto lo spettacolo e, parole sue, ha visto
ribaltarsi sulla poltrona dalle risate.
E quando il sipario si richiude, definitivamente, sugli abbracci, sulle
risate, sui baci, sui salti di gioia, con l’euforia fa il paio
l’incredulità. L’incredulità di aver messo in scena il “debutto
perfetto”. Il debutto che sogni ma che fai fatica a sperare. Il debutto
che è già spettacolo. Fatto. Finito.
Tante cose sono ancora sicuramente da perfezionare, ma quelle verranno
in seguito. Ora possiamo solo migliorare. E non mollare.
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